Philippe Bonnin, Masatsugu Nishida e Shigemi Inaga (a cura di), Vocabulaire de la Spatialité Japonaise, CNRS, Paris 2014, 605 pp.
Opera di ampio respiro, destinata a divenire un “reference book” per chi si interessa al Giappone o allo spazio in generale, il Vocabulaire de la Spatialité Japonaise è il frutto di quasi 12 anni di lavoro di un equipe di 64 docenti e ricercatori diretti e coordinati da Philippe Bonnin, Masatsugu Nishida e Shigemi Inaga.
Tradurre lo spazio
Come un normale vocabolario permette di capire una lingua straniera, il vocabolario della spazialità giapponese offre gli elementi per tradurre il modo di organizzare lo spazio di un’altra cultura.
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- Salvator-John A. Liotta
- 30 maggio 2014
Il Giappone affascina per quell'impossibilità da parte degli stranieri nel riuscire a definirlo in modo chiaro e univoco. Luogo-metafora in continuo divenire ma che al contempo mantiene tradizioni millenarie, di contraddizioni e opposti che convivono in armonia ed emanano una energia misteriosa capace di sedurre. È questo un paese che non si apprende attraverso l’evidenza, dove tutto viene costantemente rimesso in causa, dove le coordinate occidentali non trovano che una parvenza di corrispondenza e tutto risulta sorprendente.
Philippe Bonnin – direttore di ricerca al CNRS, Parigi – ci racconta il Vocabulaire de la Spatialité Japonaise.
Salvator-John A. Liotta: Augustin Berque nella prefazione si chiede perché la spazialità giapponese sia risultata così seducente per gli occidentali ieri con le stampe, oggi con l’architettura e ipotizza che “il Giappone abbia esplorato delle vie che la modernità europea si è preclusa”. Perché un vocabolario? Cosa ci offre? Philippe Bonnin: Con un vocabolario ci possiamo avvicinare ad una lingua straniera e provare a tradurla, con un vocabolario della spazialità possiamo tradurre il modo di organizzare lo spazio di un’altra cultura. Esso non è un dizionario dove sono contenuti tutti i termini di una lingua, non abbiamo avuto la pretesa di fare qualcosa di esaustivo, ma qualcosa in divenire. Il Vocabulaire de la Spatialité Japonaise mette insieme circa 200 termini giapponesi che sono spiegati in modo esaustivo a partire dalla loro etimologia e chiariscono i dispositivi, le nozioni, gli elementi dello spazio nipponico. Pensi che abbiamo già almeno altre 100 voci quasi pronte e in lavorazione e seppur già si tratta di un lavoro maturo di circa 600 pagine, il Vocabulaire è aperto e implementabile.
Salvator-John A. Liotta: Cosa intende per “Spazio come lingua primitiva”?
Philippe Bonnin: Vi è una corrispondenza fra il modo di organizzare lo spazio che si riflette in quello in cui utilizziamo una lingua. Ma c’è anche un aspetto primitivo nel nostro modo di vivere lo spazio, qualcosa che noi facciamo ancora prima di imparare a parlare.
È un tema che ho affrontato lungo un intero percorso di ricerca iniziato con Paul-Henry Chombart de Lauwe, precursore della sociologia urbana moderna francese. Avevamo in biblioteca un libro di Piaget e Inhelder La représentation de l’espace chez l’enfant, quando l’ho aperto ho notato che nessuno lo aveva mai sfogliato. Cominciai da qui: dove si parla di come, tappa dopo tappa, si formi l’idea di spazio nella testa dei bambini, dello spazio topologico, della scoperta per prossimità e passi successivi. Idee semplici: “questo è dentro e questo fuori” che vanno messe in rapporto con quello che diceva Freud. Infatti, ancora prima di cominciare a parlare, il bambino ha già fatto esperienza della separazione della madre buttando lontano un rocchetto (che rappresenta la madre) e tirandolo a se tramite il filo facendo simbolicamente scoperta dell’allontanamento dalla madre e della distanza.
Edward T. Hall mostra come uomini e animali usino lo spazio per significare qualcosa da un punto di vista sociale: scrive di distanza pubblica e distanza amorosa. Mostra come americani, giapponesi, italiani e quanti altri vivano in modo differente. Vediamo come lo spazio mediterraneo sia a volte chiuso ma che le persone siano aperte, mentre lo spazio giapponese sia molto aperto, ma magari vi sono diverse soglie invisibili che si chiudono per chi non appartenga al gruppo. Possiamo dire che l’organizzazione materiale dello spazio informale è già architettura: la posizione di una sedia in una stanza o di un tavolo sono già creazione spaziale. Nell’architettura vernacolare, anche se non progettata da architetti, non di meno sono presenti delle forme che si ripetono e che le persone sanno utilizzare e riconoscono come proprie. Le persone sono coscienti che la loro casa esprima qualcosa. Andai oltre la “psicologia dello spazio” per cercare di capire meglio “l’antropologia dello spazio” e la sua architettura. Questo mi ha portato a elaborare una teoria sullo spazio come lingua primitiva, un linguaggio che si apprende prima di cominciare a parlare.
Salvator-John A. Liotta: Il Vocabulaire de la Spatialité Japonaise porta alla luce l’esistenza di quella che potremmo definire come una scuola francofona di studi sul Giappone. Philippe Bonnin: Ho scoperto facendo questo lavoro che esiste una scuola francofona di studi sul Sol Levante che ha radici profonde che partono dal lavoro di Roland Barthes di quando lui in qualche modo scrisse l’impero dei segni, descrivendo un Paese che forse aveva sognato. Di sicuro la maniera nipponica di vedere lo spazio non è simile a quella europea e i giapponesi inizialmente mi scoraggiavano dicendo che era difficile pensare di tradurre il modo di vivere lo spazio come fosse una lingua. Ma è proprio qui che gli dicevo: se c’è una difficoltà, noi l’attacchiamo, mica ci tiriamo indietro. Così ha preso corpo la mia idea di un’antologia con diversi lavori di studiosi francesi specializzati sul Giappone e colleghi giapponesi francofoni. Ho cercato di coordinare varie ricerche e di non lasciare che si trattasse di episodi isolati. Gli americani o gli italiani sono ben formati e hanno dei punti di vista molto interessanti sul Giappone, ma in Francia siamo riusciti a crescere insieme. Per me era chiaro che si dovesse fare una rete, ma parlo di più di 20 anni fa, quando ancora non si parlava tanto di reti. In questo senso è stato importante il lavoro di Augustin Berque. Quando ha pubblicato il libro Vivre l’espace au Japon è riuscito ad analizzare lo spazio giapponese in modo interno (lui è sposato con una giapponese) ed è stato anche grazie a lui se due generazioni di studiosi – antropologi, architetti, geografi, urbanisti, filosofi – si sono interessati al Giappone. Poi grazie a JapArchi, rete di architetti francofoni specializzati sul Giappone della quale sono direttore, abbiamo organizzato convegni, pubblicato libri e svolto attività di ricerca capace di dare frutti.
Salvator-John A. Liotta: Cos’è la spazialità? Philippe Bonnin: La spazialità – questo concetto che potrebbe sembrare distante per diversi lettori – è di fatto la nostra prima lingua. Che predata sia la lingua sperimentata dal corpo che quella mentale che costruiamo in rapporto agli altri e al mondo in un continuo scambio di rappresentazioni spaziali. Inizialmente questo progetto non trattava di spazialità, non utilizzavamo questa parola. Lo chiamavo “elementi dello spazio”, ma i giapponesi ci dicevano che noi francesi eravamo troppo astratti, che bisognava essere concreti. Allora abbiamo cominciato a parlare di nozioni. Ma loro insistevano che non era corretto. Quindi abbiamo cominciato a parlare di dispositivi e nozioni. Dispositivi derivati da azioni semplici: sedersi sul tatami invece che su una sedia cosa che determina il rapporto con l’altezza di una stanza, poter riporre via un tavolo nell’armadio per questioni di flessibilità di utilizzo di un ambiente ecc. Conferenza dopo conferenza abbiamo definito nozioni e dispositivi e abbiamo capito come parliamo di spazio, come lo creiamo, come lo organizziamo, come lo rileghiamo a delle differenti scale che vanno dal gesto al territorio. Esiste un’unità in tutto questo che possiamo chiamare spazialità. Nel vocabolario abbiamo cercato di chiarire e definire cosa essa sia: nel caso del Giappone, e per la sua peculiare storia e geografia, la si può notare in modo abbastanza definito.
Salvator-John A. Liotta: In che cosa consiste la spazialità giapponese? Philippe Bonnin: Ogni società proietta al suo esterno una rappresentazione interna di se stessa e lo fa attraverso dei mezzi cognitivi e concreti. Il modo di produrre lo spazio è già espressione di un linguaggio: è quello che una società fa per organizzare un discorso, il proprio modo di percepirsi, esprimersi. Ad esempio in Giappone, i bambini non hanno una loro stanza da subito nati, ma dormono insieme ai genitori fino ai 5-6 anni e si dice che si dorme “in forma di fiume” (espressione che viene dall’ideogramma per la parola kawa, fiume). L’ideogramma del fiume presenta tre linee verticali parallele ma fluide: padre, madre e figlio. Dormire insieme serve a dare forma sociale al concetto di famiglia: si cresce insieme, si crea solidarietà. Dormendo in uno stesso letto si producono sia uno spazio che dei legami che differiscono radicalmente da quelli occidentali. Incorporando i principi fondamentali della spazialità ancora prima di cominciare a parlare, non si può avere una distanza critica che ci permetta di farli emergere. Questo è quello che chiamo “detour japonaise”, digressione per alterità, ovvero una forma di sciamanismo utilizzato per andare alla scoperta di un’altra cultura. Nel mondo ordinario e quotidiano degli altri si possono vedere delle cose eccezionali, ma soprattutto si finisce per vedere – come fosse la prima volta – il proprio modo di vivere. Allontanarsi permette di vedere. È attraverso la creazione della distanza che vediamo l’essenziale, ci si stacca dal momento contingente per vedere quello che veramente conta: i principi. Poi però ogni cultura crea o riconosce quelli a se propri e per tradurli c’è bisogno di un vocabolario.
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