Silvia Bodei, Le Corbusier e Olivetti. La Usine verte per il centro di calcolo elettronico, Quodlibet, 2014
Le Corbusier e Olivetti
Presentando la storia del mai realizzato progetto per il Centro di calcolo elettronico di Rho, Silvia Bodei ricostruisce anche l’incontro tra due personalità d’eccezione e dalla forte carica utopica.
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- Marco Pogacnik
- 09 maggio 2014
La storia del progetto per il Centro di calcolo elettronico a Rho (Milano) – al quale Le Corbusier lavorò dal 1959 al 1965 – s’intreccia con uno dei capitoli più eroici della storia politica e industriale italiana, quello della tentata conquista del nuovo mercato dell’industria elettronica da parte dell’impresa di Adriano Olivetti. Nel 1959 venne presentato il calcolatore ELEA 9003, primo computer transistorizzato al mondo progettato dall’ingegnere Mario Tchou e nel 1965 venne messo in produzione l’Olivetti P101, il primo personal computer disegnato da Pier Giorgio Perotto. Tra queste date, la progettazione della nuova sede fu scandita da una serie di tragici eventi: la morte di Adriano Olivetti nel febbraio 1960 e quella di Tchou nel novembre 1961; oltre alla cessione nel 1964 del 75% della Divisione Elettronica alla General Electric.
È all’interno di questa cornice che Le Corbusier diede forma al progetto per la sede che avrebbe dovuto ospitare tutte le attività del gruppo Olivetti impegnate nel ramo dell’elettronica. Si può misurare l’ambizione industriale del progetto – che avrebbe dovuto essere realizzato in tre fasi successive – anche solo tenendo conto del fatto che i 3 grandi moduli quadrati degli spazi produttivi (105 x 105 m) corrispondono ognuno alle dimensioni del Palazzo delle Assemblee di Chandigarh alla cui realizzazione Le Corbusier lavorò nello stesso arco di tempo (1958-63).
L’acropoli olivettiana, il monumento industriale il cui disegno era stato affidato al più visionario architetto del Novecento, non era costituito solo dai laboratori di ricerca e dagli spazi per la produzione, ma anche da un moderno museo dell’elettronica la cui realizzazione venne aggiunta nel contratto stipulato da Le Corbusier con la Olivetti nell’ottobre del 1961. Il museo avrebbe dovuto diventare un “vero laboratorio dell’elettronica, un mezzo scientifico di ricerca, di risposta, di spiegazione ed espressione… Destinato ai visitatori, agli ingegneri e agli impiegati”. Rispetto al Museé Imaginarie di André Malraux basato sul solo mezzo fotografico, nel museo di Rho l’elettronica avrebbe consentito di affrontare tematiche che andavano dalla tecnologia alla sociologia, dall’economia all’etica elaborando in modo automatico con grande rapidità una enorme quantità di dati. Sono gli anni in cui, prima con il padiglione Philips (1958) e poi con il Museo della Conoscenza a Chandigarh (1959), Le Corbusier comprende l’enorme importanza acquisita dall’elettronica nel rivoluzionare tutti gli ambiti della società umana, da quello industriale e produttivo a quello culturale e artistico. Su questo punto l’intesa con Roberto Olivetti (il figlio di Adriano) fu perfetta. Si pensi al sostegno dato a Bruno Munari, consulente di Olivetti, per la mostra milanese sull’Arte Programmata (1962) come anche al coinvolgimento dello stesso Roberto Olivetti da parte di Le Corbusier nella realizzazione del Museo della Conoscenza a Chandigarh (vedi Gargiani-Rosellini, 2011).
Il progetto per Rho è stato presentato anche in occasione della mostra romana del MAXXI curata da Marida Talamona, “L’Italia di Le Corbusier” (nell’ottobre 2012), ma la scrupolosa e accurata ricostruzione delle sue complesse fasi di progettazione, di cui nell’Oeuvre di Le Corbusier è pubblicato il solo secondo progetto, viene presentata adesso per la prima volta nel libro di Silvia Bodei (edito da Quodlibet). Bodei riprende la tesi di dottorato discussa nel 2010 presso la Universitat Politècnica de Catalunya. Il progetto preliminare (aprile-maggio 1962), primo progetto (giugno 1962), il secondo progetto (ottobre 1962 e maggio 1963) e il terzo progetto (novembre 1963) sono stati analizzati alla luce degli impegni che in quegli anni affollavano i tavoli da disegno dello studio di rue de Sèvres (di particolare importanza il rapporto con l’altro grande progetto italiano, l’Ospedale di Venezia del 1963); della continuità con alcune soluzioni formali che si ripropongono a più riprese nell’opera di Le Corbusier (significativa l’analogia messa in luce con il Plan Macià di Barcellona del 1933); come anche della ricerca architettonica coeva (in particolare i rapporti con il Mat-building del Team X, da Shadrach Woods a Kisho Kurokawa, e la ripresa delle strutture di Riccardo Morandi per l’aeroporto di Roma).
Il ridisegno delle tavole d’archivio compiuto dall’autrice del volume permette un più comodo lavoro di comparazione tra le diverse soluzioni progettuali: l’abbandono del sistema a setti per le unità degli spazi produttivi a favore di una pianta libera su pilastri; l’introduzione dei volumi iperbolici in corrispondenza degli spazi di servizio posti sulla copertura; le profonde modifiche imposte al volume dei laboratori di ricerca fino ad assumere una configurazione molto vicina a quella dell’edificio del Segretariato di Chandigarh. Della mediazione con la committenza viene ogni volta investito Jean Petit che è stato ben più che un semplice collaboratore. Ciò che tale lettura restituisce è la cura con la quale Le Corbusier rispondeva alle osservazioni e alle critiche della committenza.
Nel capitolo “Le Corbusier biologiste”, infine, viene affrontata la questione del modo col quale operavano i meccanismi dell’invenzione formale di Le Corbusier che era un vorace manipolatore di immagini. Sono stati analizzati con cura i modelli presi a prestito dalla biologia, il parallelismo con certe tecniche utilizzate dalle avanguardie figurative (avrebbe meritato una menzione a parte il movimento surrealista) come anche l’analogia con i motivi decorativi di tipo seriale (pattern per piastrelle, tappeti e tessuti) ai quali Le Corbusier si era esercitato fin dagli anni di formazione a La Chaux-de-Fonds. L’autrice è stata capace di mettere in luce in modo convincente le ragioni della fascinazione esercitata dalle forme lecorbusiane legate a questa loro origine trasversale e ibrida, straniante negli improvvisi salti di scala.
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