Peter Bishop e Lesley Williams, The Temporary City, Routledge, Oxon – New York, 2012 (pp. 248; € 38,70)
Quando l'ex deputy chief executive della London Development Agency (ossia, il coordinatore di una sorta di equivalente inglese del piano regolatore della regione di Londra) scrive, assieme a uno scultore, un libro che illustra i limiti della programmabilità degli usi urbani mediante la pianificazione tradizionale, il dubbio sorge lecito, e la si può vedere in due modi.
Si può pensare che il libro sia la conseguenza di un fallimento professionale, e che quindi sia pervaso da quella sorta di falsa coscienza che, nella battaglia per la comprensione del presente – e, perché no, per la futura risoluzione di qualche problematica urbana – porta gli antichi sconfitti a proporsi come nuovi possibili vincitori, magari spostando il campo dalla complessità delle città reale al più rassicurante indirizzo dell'accademia.
Oppure si può guardare, ed è ciò che sceglierò di fare, a pregi e limiti dell'opera in quanto tale. Certamente, con The Temporary City, Bishop e Williams intercettano una tematica assolutamente pregnante sotto molti punti di vista: dal sociologico, all'architettonico, al più propriamente urbanistico.
Le riflessioni partono dalla crisi del concetto di permanenza in quanto tale. Qualcosa a cui la retorica della postmodernità e Baumann ci hanno ampiamente abituati – finanche a stancarcene – ma che in questo libro trova la giusta dimensione introduttiva, senza troppo indulgere in filosofemi da strapazzo. Invece, il centro dell'osservazione è subito portato nel vivo della dimensione urbana.
Nella metropoli contemporanea, sicurezza e permanenza sono attributi della ricchezza. Ovunque vi sia povertà, le condizioni tendono spesso all'incertezza e alla transitorietà, sia da un punto di vista fisico, sia per il verso legislativo. Infatti, la proliferazione di situazioni di necessità che spingono gruppi sociali all'utilizzo informale di spazi ed edifici è spesso liquidata dalle autorità costituite con la taccia di abusivismo per il semplice fatto di non aderire ad alcun protocollo di uso formalmente autorizzato.
The temporary city
Nel testo di recente pubblicato dalla Routledge, Peter Bishop e Lesley Williams riflettono sull'interessante coesistenza di un'enorme offerta di strutture e spazi inutilizzati e di una domanda di usi della città rinnovata in primis dalla rivoluzione del mondo del lavoro.
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- Rossella Ferorelli
- 21 dicembre 2012
Eppure, allo stesso tempo, il fenomeno dello shrinkage (contrazione) delle città occidentali, ormai studiato da diversi anni nella disciplina urbanistica, non lascia dubbi al fatto che il numero di "vuoti" urbani è destinato a crescere. Si tratta di contenitori dismessi, spesso in aree industriali in via di smantellamento, ma anche di spazi svuotati di significato e, appunto, di vuoti normativi intorno, in particolare, all'utilizzo di quelle parti della città in trasformazione destinate a rimanere in stato di abbandono per un certo tempo, prima della loro riallocazione.
Bishop e Williams riflettono quindi sull'interessante coesistenza di un'enorme offerta di strutture e spazi inutilizzati e di una domanda di usi della città rinnovata in primis dalla rivoluzione del mondo del lavoro, i cui parametri di flessibilità gli danno contorni così imprecisi da far sì che si confonda con altri ambiti dell'esistenza, tra i quali, per assurdo, il tempo libero.
Il mercato immobiliare, che tra tutti è quello più lento ad adattarsi ai mutamenti rapidi di bisogni e possibilità delle persone, risulta spesso impreparato a rispondere. Proprio a questa mancanza di risposte una serie di gruppi di ricerca ha cominciato ad opporre proposte autonome a partire dagli anni '90 e, in effetti, The Temporary City raccoglie una notevole bibliografia in merito e permette un'interessante ricognizione dell'attività dei pionieri della questione, in città e in rete.
Molto interessante è il ricorso all'illustrazione di una serie di case studies suddivisi per capitoli che hanno a che vedere col mercato immobiliare, con il mondo del commercio e del consumo "pop-up", con la partecipazione (ma non si parla, stranamente, di Occupy), con la cultura e l'espressione tramite la reinterpretazione dello spazio urbano, con l'uso delle nuove tecnologie, ma anche con tentativi più o meno riusciti di vera pianificazione, benché morbida e collaborativa.
Insomma, non si tratta esattamente di una questione nuova, ma certamente di una questione che aveva bisogno di un testo quantomeno riassuntivo delle sue istanze principali. Certo, non si tratta di un'opera esaustiva – ammesso che ne esistano – né nel tempo né nello spazio. Chi cerca un approfondimento storico-teorico completo, ad esempio, non lo troverà in questo libro. Ma ciò, probabilmente, è un bene. Quello che il lettore potrà trovare un po' fastidioso è il "londoncentrismo", se così si può dire: molti dei casi studio appartengono infatti all'universo londinese e, benché ve ne siano anche di internazionali, si avverte tra di essi una certa sproporzione.
Ancora, la raccolta dei casi studio sconta una certa asistematicità, ma il debito dichiarato nei confronti di testi come Post-It City di Giovanni la Varra ne fa comprendere il carattere volontariamente sperimentale e aperto. Un'opera sufficientemente leggera e utile (appena un po' troppo costosa per essere in brossura), in definitiva, ad addentrarsi nel territorio accidentato e affascinante degli usi urbani temporanei sia per l'interesse che essi esercitano sullo studioso, sia per quello che dovrebbe prendere chiunque decida di investire idee e denaro (anche poco) nell'utilizzo creativo della città che esiste.