Andrew Blauvelt, Ellen Lupton, Graphic Design: Now In Production, Walker Art Center, 2011 (pp. 240, € 25.00)
Il tipo prevalente del catalogo d'esposizione ha un ruolo soprattutto documentario. Sotto forma di 'mattone' di grande formato oppure di agile opuscolo, si limita a documentare una mostra altrimenti effimera, materializzando nella stampa gli intenti del curatore, le opere esposte, le date significative, i nomi dei prestatori. Allineati nelle biblioteche questi cataloghi fungono da reperti fossili di eventi vivi. Gli esemplari più accorti di questa schiatta comprenderanno uno o più saggi nel tentativo di arricchire il significato dell'esposizione fisica con una contestualizzazione più ampia e di dotare di un momento di autocoscienza l'insieme delle opere riunite.
Il catalogo Graphic Design: Now in Production, pur appartenendo in tutto e per tutto alla stessa specie degli altri, è uno dei più evoluti. Realizzato dai curatori Andrew Blauvelt ed Ellen Lupton, è contemporaneamente generale ed esauriente, non ufficiale e serio. I saggi sono intercalati alle opere di cui parlano, a opere di cui non parlano ma che sono pertinenti e a opere che possono non essere direttamente pertinenti al saggio ma che sono verosimilmente pertinenti alle altre opere. I materiali, benché ampiamente tratti da quelli esposti al Walker Art Center e alla Cooper Hewitt l'anno passato, sono organizzati con una fluidità che non appare minimamente ostacolata dai concetti di curatela della mostra fisica. Il libro, più che limitarsi a documentare la mostra, le si affianca, sta in piedi da solo come il suo sommario in forma di libro.
Graphic Design: Now in Production
In occasione della mostra tenutasi per la prima volta al Walker Art Center di Minneapolis, i due curatori Andrew Blauvelt ed Ellen Lupton editano un catalogo che le si affianca e sta in piedi da solo, come il suo sommario in forma di libro.
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- 14 settembre 2012
Blauvelt e Lupton scrivono nell'introduzione che la loro strategia organizzativa si ispira a The Last Whole Earth Catalog di Stewart Brand (che definiscono "la classica guida alternativa alla sopravvivenza autarchica"), con immagini di vario formato sparse qua e là nella pagina, accanto alle quali galleggiano lunghe didascalie. Blauvelt, nel risvolto di copertina, ricorda che questa strategia fu inaugurata in occasione del lancio della prima collezione di pittura del Walker Art Center nel 2009, basata su opere appese, alla maniera dei Salon parigini, nella residenza ottocentesca del fondatore T.B. Walker. Blauvelt la definisce un'impostazione "premoderna", ma suggerisce che sia contemporaneamente anche il contrario (e io sono d'accordo, pensando allo schema dei più recenti blog di Tumblr, organizzati dinamicamente in griglie grazie ai più aggiornati repertori di script).
Sotto la sopraccoperta la copertina è stampata in bianco e nero, e questo particolare, insieme con il blocco di carta da quotidiano del volume, dà al libro un'accattivante aria pragmatica. Emmet Byrne, responsabile della grafica del catalogo, ha chiesto alla French Paper Company di tagliare la carta contro fibra (contrariamente alle consuetudini) dando al libro quello che chiama "il voluto effetto di caduta". Il formato appare molto grande, a imitazione del Whole Earth Catalog, ma sostituisce il Clarendon non con l'Helvetica, come ho pensato in un primo momento, ma con un carattere che si chiama Union, di Radim Pesko, che ne tempera le differenze con l'Arial. Nelle parole del progettista "è pensato per situazioni in cui l'Helvetica appare troppo sofisticato e l'Arial troppo banale, e viceversa". Questa combinazione di una tipografia raffinata e sommessa con un progetto fluidamente dinamico già distingue il volume dai più convenzionali mattoni patinati dei cataloghi 'di rappresentanza'. La lunghezza e la portata dei testi raccolti nel volume non fanno che sottolineare la differenza.
Riproponendo saggi importanti già pubblicati in altra sede, il catalogo di Graphic Design riesce a trattare – sorprendentemente e magari non senza qualche sconcerto – la maggior parte dei principali problemi formali con cui i critici della grafica si sono cimentati nell'ultimo decennio. I primi sette-otto riguardano più o meno direttamente il problema fondamentale dell'essenza del ruolo del progettista, muovendosi intorno alla conversazione Designer as Author ("Il designer come autore") tra Rick Poynor e Michael Rock pubblicata dalla rivista Eye negli anni Novanta. Benché i due testi originali non siano compresi, presumibilmente perché estranei all'attuale prospettiva storica, la spavalda revisione di Michael Rock Fuck Content ("Al diavolo il contenuto") e Designer as Producer ("Il designer come produttore") di Ellen Lupton li sintetizzano a sufficienza. ("Il designer come produttore", in realtà, mi colpisce forse più favorevolmente del termine "imprenditore" di Steven Heller, o per lo meno, nel senso dello Studio System, riesce a mettere insieme correttamente "imprenditore" con "autore".)
Il libro, più che limitarsi a documentare la mostra, le si affianca, sta in piedi da solo come il suo sommario in forma di libro.
Benché tanta mole di testo impedisca di riflettere su che cosa sia in realtà l'attività di cui si parla, per lo meno si tratta di un rapporto proporzionale che mi sembra ben rappresentare la prevalente visibilità del testo sul progetto grafico degli ultimi dieci o vent'anni. E c'è un guaio peggiore che ha afflitto non solo le categorie estetiche e politiche della creatività grafica ma anche (come osserva Blauvelt) quelle esistenziali che essa si trovava ad affrontare sull'onda del temibile avvento del desktop publishing. Leggendo nell'insieme la sequenza d'apertura dei saggi è facile sentirsi un po' esasperati di fronte a un genere d'ansia che rasenta la stucchevolezza: in fin dei conti si tratta davvero del ruolo del progettista o piuttosto di un ruolo cui quello del progettista si possa meglio paragonare: 'autore', 'ricercatore', 'produttore', 'critico', 'imprenditore' e via dicendo? Michael Rock, pur lamentando questa tendenza, paragona il ruolo a quello del regista cinematografico, o meglio non a quello di un regista cinematografico qualunque: a quello di Alfred Hitchcock. "Ciò che fa di un film di Hitchcock un film di Hitchcock non è la trama ma la coerenza stilistica […] La grandezza del suo genio sta nell'essere capace di calare la forma nel suo stile […] Il significato della sua opera non sta nella trama ma nel modo di raccontarla." Benissimo, soprattutto se si parla del lavoro di Michael Rock.
Il contributo di James Goggin, Practice from Everyday Life ("Professione di tutti i giorni"), per contrasto, si lancia in direzione decisamente opposta: propone per il progetto grafico un "campo allargato", facendo un sol fascio di tutte le frontiere immaginate: imprenditorialità, opera (d'arte) concettuale, scrittura. Così facendo Goggin va pericolosamente vicino a rendere il termine vago fino all'inutilità, talmente vasto da perdere qualunque significato specifico. (Goggin cita anche Stuart Bailey, sempre straordinario nei suoi aforismi, che evita accuratamente di addentrarsi nella questione: il progetto grafico è "un fantasma: una zona neutra, un punto d'incontro".) Se questa angoscia ontologica appare claustrofobica, la parte finale del catalogo si distacca dalle raffinatezze autodefinitorie per procedere in direzioni decisamente nuove. L'equilibrato saggio di Peter Hall sulla visualizzazione dei dati apre un vasto panorama di ricerche accademiche sulla matematica, sull'infografica, sulle reti e sui processi cognitivi, ma – nonostante questa descrizione – è leggibilissimo, e proprio perciò (o nonostante ciò) dovrebbe essere un libro di testo tra i preferiti.
School Days ("Giorni di scuola") di Rob Giampietro mette a confronto la crescente importanza dei programmi di scrittura creativa nei corsi di laurea a indirizzo artistico con i paralleli curriculum del Progetto grafico. Sulla base di The Program Era ("L'epoca dei programmi") di Mark McGurl, Giampietro nota che non solo la professione influisce sulla formazione (prospettiva tradizionale nelle scuole d'arte e, esplicitamente, nelle scuole di arti visive), ma anche che la formazione influisce sulla professione, o, più che influire su di essa, le dà letteralmente forma. Afferma Giampietro che "così come ci sono tipi di estetica che non vengono definiti arte né destinati a diventare noti come arte, ci sono anche tipi di pedagogia che non sono definiti 'scuola' né destinati a divenire noti come scuola".
Se questa alternanza di attenzione per la forma e la relativa prassi è in grado di dare un nuovo inquadramento al significato generale del 'progetto grafico', meno imperativo è forse giustificare la prassi in termini di altre discipline. È forse invece possibile raggiungere la situazione cui allude Blauvelt quando scrive che "il progetto grafico va visto come una disciplina in grado di creare significato in base a proprie risorse innate, svincolate da committenza, funzionalità, materiali o strumenti specifici". Nel frattempo ecco duecento pagine di grafica per riflettere su che cosa siano queste "risorse innate".