Landform Building. Architecture's New Terrain, a cura di Stan Allen e Marc McQuade in collaborazione con la Princeton University School of Architecture, design Thumb Projects, Lars Müller Publishers, 2011
Il legame tra paesaggio e architettura viene comunemente definito dal concetto di megastruttura, o per lo meno questo è il primo messaggio che si percepisce aprendo il volume Landform Buildings e scorrendone le pagine. Ma questo stretto rapporto ha subito rapidi cambiamenti dell'ultimo decennio, dal punto di vista biologico a quello geologico; il desiderio di realizzare un'architettura coerente oggi si arricchisce di riferimenti al paesaggio. Oggi, come sottolinea Stan Allen, una tendenza parallela guarda non alla biologia delle singole specie ma al comportamento collettivo dei sistemi ecologici in quanto modello della città, degli edifici e del paesaggio: "L'architettura si colloca tra biologia e geologia: più lenta della vita ma più veloce della geologia sottostante".
Il punto di partenza di questo nuovo modo di leggere l'architettura si colloca all'inizio degli anni Novanta, quando il configurarsi di un'"urbanistica del paesaggio" si focalizzò su sperimentazioni di piegatura, di manipolazione delle superfici e di creazione di terreni artificiali. Per lo più queste strategie sono collegate con progetti d'avanguardia degli anni Sessanta, come la Città portaerei nel paesaggio di Hans Hollein oppure Transplantation I di Raimund Abraham; un momento in cui le proposte dell'architettura comprendevano di per sé la trasformazione del paesaggio, come spiega bene Erwin Rommel (citato da Marida Talamona): "Qualunque opera d'architettura, prima di essere un oggetto, è una trasformazione del paesaggio".
Landform Building
Nel loro recente libro, Marc McQuade e Stan Allen analizzano l'evoluzione del rapporto tra architettura e paesaggio.
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- Ethel Baraona Pohl
- 12 novembre 2011
Al di là delle implicazioni formali il dibattito sui landform buildings, gli edifici come elementi di paesaggio [1], ci induce a riflettere su temi importanti come la grande dimensione, che secondo Rem Koolhaas [2] sembrava un fenomeno da e per Nuovi Mondi, dove la sua programmatica ibridazione/prossimità/frizione/sovrapposizione/stratificazione è possibile. Il passaggio dall'idea di programma all'idea di uso è sottolineato da Mirko Zardini, che contemporaneamente ci invita a riflettere sull'intersezione tra paesaggio e problemi sociopolitici. Michael Jakob lo spiega in parole semplici: "Il rapporto con la natura è sempre politico".
L'attuale intento di sfumare i confini tra natura e cultura è presente nella maggior parte dei casi di studio presentati nel libro. Dal Gordon Strong Automobile Objective di Frank Lloyd Wright del 1924 al concorso per la nuova Biblioteca centrale Deichman di Toyo Ito del 2009 troviamo l'idea di trattare lo spazio urbano come un elemento geologico. Un buon esempio di questa prospettiva è la Biblioteca España dello studio Giancarlo Mazzanti & Architects, situata a Medellin, in una delle topografie più tormentate della Colombia. In risposta a questo genere di 'sfida topografica' gli architetti hanno elaborato paesaggi in relazione con la geografia più che con l'oggetto architettonico. Descritto da Mazzanti come "geografia operativa" il progetto sottolinea l'ambiguità tra edificio e paesaggio.
Tutta la teoria sottesa al concetto di landform building è inoltre sostenuta da certe opere d'arte e da certi progetti teorici. È il caso di citare l'opera di Tacita Dean Found Ice: Berlin, August 2000. Attraverso questa collezione di quindici fotografie la sua opera si collega all'archeologia della montagna artificiale di Michael Jakob [3] e nelle immagini si nota la prova evidente che il ghiaccio non segue le leggi della forma; e che proprio come certi architetti vorrebbero per i loro edifici, la sua forma è in evoluzione costante. Nel suo saggio Jakob riprende l'idea di grandezza di Koolhaas, sottolineando che le montagne artificiali esprimono sempre l'idea delle grandi dimensioni, per quanto piccole siano. Questa idea delle grandi dimensioni è presente non solo nell'opera artistica di Tacita Dean ma anche negli "scandali visivi" di Tsuneisha Kimura. Tutti i fotomontaggi di Kimura sono una rappresentazione distopica del mondo ma la ragione per cui sono coerentemente inclusi nel libro è il loro modo di riflettere la giustapposizione di oggetti, eventi e paesaggi. Mentre Kimura manipola tempo e spazio, le immagini bloccate di Dean sono il perfetto contrappunto alle narrazioni paesaggistiche.
Altrettanto si può affermare dell'opera di Robert Smithson, alcuni dei cui progetti trasformano e ampliano il concetto di paesaggio, sempre in riferimento a un territorio allargato abitato da miti e utopie. Il suo progetto Bingham Copper Mining Pit—Utah Reclamation Project è stato usato da Jakob come esempio di inversione della montagna artificiale, noto come "il buco più grande del mondo", pieno di significato e in rapporto con la traccia di umanità proposta dai landform building. A questo punto i Paesaggi alpini di Walter Niedermayr attivano questa traccia di umanità, collocando esseri umani nella natura, svelando la vulnerabilità della presenza umana in mezzo al grande vuoto del paesaggio naturale: "Non solo vastità, ma anche vuoto", come dice Reyner Banham. [4]
La raccolta di tutte queste analisi, dibattiti, conversazioni, saggi e opere d'arte è diventata un documento completo e utile. Un viaggio attraverso la storia e i cambiamenti affrontati dall'architettura nell'interazione con il paesaggio, che la trasforma nelle megastrutture paesaggistiche di oggi. C'è da chiedersi se Fumihiko Maki, quando definì il concetto di megastruttura nel suo Investigations in Collective Form [5], avesse un'idea dell'evoluzione che questo concetto avrebbe subito e di tutti i termini che ne sono derivati, come la "megaforma" di Kenneth Frampton [6], fino a diventare una linea di confine irregolare tra naturale e tettonico. O dovremmo parlare di tettonica naturale?
La tettonica naturale può essere considerata la ricostruzione architettonica della natura, come sottolinea David Gissen, e potrebbe rivelarsi una prospettiva positiva se si ricomincia a pensare che l'architettura possa anche riportare la natura nell'immagine e nell'esperienza della città. E voglio concludere con le parole di Gissen: "Attraverso questa lente comprendiamo la 'natura' come qualcosa che fu (passato remoto) nella città. Riportandovelo ricostruiamo la passata realtà della città ma riconosciamo anche la fine della natura così come la intendiamo".
Note:
1. Landform Building, Architecture's New Terrain, convegno della Princeton University School of Architecture
2. Thinking big. Conversazione di John Rajchman con Rem Koolhaas
3. Michael Jakob, On Mountains, Scalable and Unscalable, ms.
4. Reyner Banham, Scenes in America Deserta, MIT Press, 1989.
5. Fumihiko Maki, Investigations in Collective Form, 1964
6. Kenneth Frampton, Megaform As Urban Landscape, University of Michigan, 1999.