Robert Mallet-Stevens. L’œuvre complète, Catalogo della mostra, Éditions du Centre Pompidou, Paris 2005 (pp. 252, s.i.p.)
Robert Mallet-Stevens Architecte, A cura di Jean-Pierre Lyonnet Éditions 15 square de Vergennes, Paris 2005 (pp. 234, € 65,00)
Robert Mallet-Stevens 1886-1945, Cristiana Volpi, Electa, Milano 2005 (pp. 384, € 110,00)

La figura dell’architetto Robert Mallet-Stevens (1886-1945) ha conosciuto negli ultimi anni un sostanziale crescendo d’interesse, culminato con la mostra parigina al Centre Pompidou (aprile-agosto 2005), accompagnata dal relativo catalogo Robert Mallet-Stevens. L’œuvre complète, mentre parallelamente vedevano la luce altri due volumi monografici sull’opera dell’architetto francese: il libro curato da Jean-Pierre Lyonnet, Robert Mallet-Stevens Architecte, e quello di Cristiana Volpi, Robert Mallet-Stevens 1886-1945, pubblicato da Electa.

Il catalogo della mostra parigina raccoglie contributi di vari autori – storici dell’arte, dell’architettura e architetti – che si occupano dei vari aspetti della vicenda culturale e professionale di Mallet-Stevens. Olivier Cinqualbre traccia una visione d’insieme dell’œuvre complète dell’architetto; la stessa Volpi si concentra sulla formazione e i primi lavori, anticipando in forma sintetica una parte del suo corposo lavoro monografico; Cécile Briolle e Jacques Repiquet, che si sono occupati anche del restauro della villa De Noailles a Hyères (1923-28), si dedicano all’esprit des formes di Mallet-Stevens; Jean-François Pinchon si sofferma sugli arredi; Richard Klein – già autore del recentissimo Robert Mallet-Stevens. La villa Cavrois (2005) – sui tentativi di coordinare la produzione artistica con quella industriale. Brevi ma incisivi saggi, corredati da accurate riproduzioni di immagini d’epoca e puntuali note, intervallati da un’antologia degli scritti di Mallet-Stevens, seguiti da esaustive schede delle opere e conclusi da puntuali apparati bio-bibliografici, rendono il catalogo un indispensabile termine di confronto anche sul più ampio tema della cultura architettonica francese tra la fine degli anni Dieci e la vigilia del secondo conflitto mondiale.

Ben diverso il carattere del volume curato da Jean-Pierre Lyonnet, nel quale non storici, ma giornalisti, galleristi, conoscitori d’architettura e arte, sono gli autori di una serie di testimonianze, più che saggi, sul lavoro e la personalità dell’architetto francese. In qualche caso acuti e comunque non privi di interesse, quasi tutti i vari contributi – nonostante si susseguano numerosissime citazioni e cenni a non meglio precisate fonti – sono privi di qualsiasi riferimento bibliografico o documentario e sostanziati da una ricerca amatoriale più che scientifica.

Il volume di Cristiana Volpi è invece sostenuto da una ricerca accuratissima. L’autrice è riuscita a gestire una mole di riferimenti più che ingenti, che le hanno permesso di condurre un’attenta revisione delle fonti bibliografiche sull’architetto e un confronto meticoloso con i documenti dispersi in vari archivi, oltre che ripercorrere in maniera esaustiva le tappe della formazione di Mallet-Stevens, ricostruendo l’universo di riferimenti culturali dell’architetto, dai suoi primi lavori fino all’epilogo del Pavillon de la Presse et de la Publicité all’Exposition du Progrès Social di Lille (1939).

Tutto questo lavoro è stato compiuto sfrondando l’anedottica incerta che spesso avvolgeva alcuni nodi cruciali della carriera di Mallet-Stevens, come la vicenda dell’incarico per la villa De Noailles, che Volpi restituisce evidenziando le contraddizioni che le stesse dichiarazioni di Charles De Noailles, piuttosto che altre ricerche poco accurate, avevano legittimato. Emerge inoltre l’estremo interesse che Mallet-Stevens – e non solo – nutriva per la cultura architettonica viennese; legame spesso evidenziato anche dalle fonti contemporanee all’architetto, ma mai analizzato in maniera così precisa nella dinamica delle sue tappe. A partire dalla traduzione e dalla pubblicazione di L’architecture et le style moderne e Ornament et crime, i due fondamentali scritti di Adolf Loos, su Les Cahiers d’aujourd’hui (n. 2, 1912; n. 5, 1913), che avranno una grande influenza su Mallet-Stevens.

Proprio il rapporto con la cultura viennese – e certo non solo Loos, ma soprattutto Josef Hoffmann e la Wiener Werkstätte che avranno su Mallet-Stevens una ricaduta, anche formale, evidente – meriterebbe, per le sue implicazioni ben più ampie, di stimolare successivi studi sull’enorme influenza che ebbe sull’avanguardia architettonica del XX secolo. Anche oltre l’ambito europeo: proprio tra il 1909 e il 1910 Frank Lloyd Wright si trovava in Europa e – come dimostra Anthony Alofsin nel suo Frank Lloyd Wright. The Lost Years, 1910-1922 (1993) – manifestava una forte attrazione per i lavori degli architetti viennesi. Anche altri interessi, come quello per la cultura artistica giapponese, manifestato dallo stesso Mallet-Stevens e ampiamente perseguito da Wright, diventano il terreno comune di una serie di esperienze che tentano di emanciparsi da più scontati modelli culturali. O meglio, cercano di coniugare il fermento del rinnovamento delle arti ad una radice culturale indipendente dalle convenzioni più diffuse del gusto.

La ricerca di Mallet-Stevens, perfettamente inserita in questo orizzonte, avverte subito come prioritaria la necessità di sollecitare – esattamente come la Wiener Werkstätte – la collaborazione stretta tra architetti, arredatori e artisti. Nel 1929 cerca inoltre, attraverso la fondazione dell’Union des Architectes Modernes (UAM), di promuovere un rinnovamento collettivo allo scopo di costituire un elemento di dialogo con la committenza pubblica. Contemporaneamente Mallet-Stevens firma i suoi capolavori, rigorosamente privati, come la rue Mallet-Stevens a Parigi (1926-34) e la villa Cavrois a Croix (1929-32), nei quali volumi nudi, spigoli netti, terrazze e aggetti, articolati in raffinatissime composizioni plastiche, lo confermano come uno degli architetti più dotati della sua generazione, come ben dimostra Volpi attraverso l’articolazione dei saggi che sostanziano il suo volume, oltre che per il contributo di un vastissimo repertorio iconografico di alta qualità.

Sorretta dalle solidissime fondamenta documentarie e bibliografiche su cui è costruita la sua ricerca, l’autrice poteva forse spingersi verso una più audace reinterpretazione critica del ruolo di Mallet-Stevens. Si potrebbe provocatoriamente affermare che tra gli anni Venti e Trenta Mallet-Stevens è una figura paragonabile a quella di Le Corbusier. Ma la sfortuna critica, soprattutto l’ostracismo di Sigfried Giedion, e le ragioni biografiche, Mallet-Stevens muore nel 1945, tenderanno a divaricare, fino a rendere inconciliabili, le posizioni di questi due architetti, che seppure differenti per temperamento, personalità e strategie d’azione, militavano entrambi tra le file dell’avanguardia.

Emerge comunque una nuova identità dell’architetto francese: il ritorno di Mallet-Stevens, per citare il film di Daniel Vigne Le retour de Martin Guerre (1981), basato su un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento e sorretto dall’attento lavoro di documentazione della storica Natalie Zemon Davis, autrice dell’omonimo saggio (1982). Qui siamo nel Novecento, ma il Mallet-Stevens che si affaccia dalle recenti riletture critiche sembra proprio smascherare – come il vero Martin Guerre – l’impostore, che la storiografia canonica aveva cristallizzato nell’immagine del “formalista incallito”, come l’aveva definito Giedion nel 1928.

Roberto Dulio, Architetto