Giuseppe Terragni Transformations Decompositions Critiques, Peter Eisenman, The Monacelli Press, New York, 2003 (pp. 304, $ 40.00)
Già il titolo, scritto senza soluzione di continuità, con i nomi di Terragni ed Eisenman in caratteri neri e il resto in rossi, quasi che gli autori fossero due e il libro il trait d’union tra di essi, lascia intravedere una delle caratteristiche sostanziali del volume. È poi lo stesso autore a dichiarare nell’introduzione che: “This book is the work of two architects. Neither can be called an architectural historian or critic. The work of both can be seen as an attempt to displace their respective architectures from specific historical conditions”.
E in questa dichiarazione sono evidenti i pregi e i limiti del volume che Eisenman dedica non tanto – o non solo – alla Casa del Fascio (1932-36) e alla Casa Giuliani Frigerio (1939-40), realizzate a Como da Terragni, ma soprattutto, anche se materialmente assenti, alla proprie esperienze progettuali: quasi un’autobiografia. La ricerca che prende corpo in questo libro ha origini lontane. Sicuramente fu determinante l’incontro di Eisenman con Colin Rowe e il successivo trasferimento in Inghilterra, dove nel 1962 l’architetto americano conseguiva il Master of Art a Cambridge, mentre l’anno seguente discuteva la tesi di dottorato The Formal Basis for Modern Architecture, rimasta inedita. L’interesse e la capacità di analizzare le opere architettoniche con gli strumenti propri della disciplina – il disegno, il confronto formale – spingono Eisenman ben oltre l’insegnamento di Rowe, fino ad arrivare ad una lettura ‘linguistica’ dell’architettura che, rompendo il legame tra etica, politica e linguaggio, scardina il principale canone di legittimazione del cosiddetto “movimento moderno”.
Proprio per questo i suoi primi studi su Terragni – Dall’oggetto alla relazionalità: la Casa del Fascio di Terragni in Casabella (344, 1970), From Object to Relationship II: Giuseppe Terragni’s Casa Giuliani Frigerio in Perspecta (13-14, 1971) – rappresentano un importante contributo al superamento dell’interpretazione dell’architettura di Terragni come contestazione formale all’ideologia fascista. Tale ‘dispositivo’ storiografico inaugurato dalle considerazioni che su Terragni esprimeva Bruno Zevi nella sua Storia dell’architettura moderna (Torino 1950), e poi confermato in Omaggio a Terragni, un volume monografico de L’Architettura – cronache e storia (153, 1968) redatto da Zevi insieme a Renato Pedio, era stato ovviamente messo a punto per recuperare il valore evidente dell’opera dell’architetto comasco dall’imbarazzante legame col fascismo.
Occuparsi, come faceva Eisenman, dell’architettura di Terragni attraverso un’analisi linguistica e compositiva, quindi apolitica – un architetto e un’architettura né fascista né antifascista – sollecitava una nuova stagione di studi sull’opera di Terragni. Certo in un secondo momento la questione del legame col fascismo sarebbe stata affrontata di nuovo, e ben diversamente – il libro di Giorgio Ciucci Gli architetti e il fascismo (Torino 1989) lo dimostra – ma in quel momento, per il loro carattere, gli scritti di Eisenman attraggono l’interesse di Manfredo Tafuri, che scrive un’introduzione ad un libro su Terragni che Eisenman stava preparando e che avrebbe dovuto pubblicare per MIT Press nel 1979.
Ma il volume non comparve e l’anticipazione dello scritto di Tafuri, Giuseppe Terragni: Subject and ‘Mask’, pubblicato in Oppositions (11, 1977) – e in italiano come Il soggetto e la maschera. Un’introduzione a Terragni in Lotus (20, 1978) – rimase l’unica parte compiuta di quel progetto. Almeno fino ad oggi: quel libro mai uscito né nel 1979 né negli anni seguenti è proprio quello pubblicato ora da Eisenman. Il lavoro di Eisenman cerca di evidenziare le strutture formali sottese alle architetture di Terragni e, di riflesso, alle proprie. Si tratta, secondo l’autore, di strutture non immediatamente evidenti – percepibili appunto seguendo un processo di transformations decompositions critiques – e per questo astratte, o non oggettuali.
Attraverso un’accurata analisi dei due “testi critici”, la Casa del Fascio e la Casa Giuliani Frigerio, Eisenman propone una serie di paragoni fra le loro modalità compositive, che mostrano elementi comuni e a volte contrastanti. La Casa Giuliani Frigerio, per esempio, può essere considerata come una serie di strategie di inversione di elementi della Casa del Fascio: se la prima è interpretabile come frutto di una logica additiva, la seconda è generata da una sottrattiva. Ma allo stesso tempo le facciate che in qualche modo mascherano l’organizzazione spaziale dell’interno accomunano i due edifici, oltre a dimostrare l’estraneità degli edifici ad una rigorosa e canonica categoria ‘funzionalista’: l’analisi formale ha quindi delle ripercussioni utilizzabili in altre considerazioni o analisi di carattere più specificamente storico, e anche da ciò si spiega l’interesse di Tafuri negli anni Settanta.
Ma se si riconsidera oggi il valore di questo testo rispetto agli studi su Terragni, allora risulta evidente il fatto che fra il concepimento del testo e la sua pubblicazione sono passati quasi venticinque anni. In una recente intervista – Una conversazione intorno al significato e ai fini della pratica dell’architettura (e qualche ricordo), in Casabella (675, 2000) – Eisenman dichiara: “Ciò che penso di Terragni è venuto cambiando nel tempo. Sono contento di non aver pubblicato il libro che avrei potuto scrivere negli anni Sessanta, perché ora ne posso scrivere un altro, che nessun altro potrebbe scrivere”. Tuttavia quelle che all’epoca erano nuove, e in qualche modo fruttuose ipotesi di letture dell’opera di Terragni, appaiono oggi meno fragranti, e riflettono un carattere di autobiografica celebrazione. Inoltre l’analisi formale attuata attraverso una serie di foto d’epoca, spesso scontornate e quindi anch’esse ‘decontestualizzate’, ma soprattutto una serie impressionante di disegni – piante, prospetti o assonometrie dalla grafica minimal e, soprattutto nelle lunghe sequenze, solo impercettibilmente distinguibili – non è sempre di facile lettura. Anche il testo, discorsivo ma autoreferenziale, e senza neppure una nota, appare dilatare esageratamente una formula che era più incisiva nei saggi del 1970 e 1971, piuttosto che nel più recente Giuseppe Terragni e l’idea di testo critico, pubblicato nel volume curato da Giorgio Ciucci Giuseppe Terragni Opera completa (Milano, 1996).
Insomma il libro di Eisenman si muove su due differenti piani, e quello autobiografico, per definirlo così, risulta oggi più convincente rispetto a quello documentario sul lavoro di Terragni. È difficile capire se l’approccio metodologico dell’architetto americano possa attualmente produrre dei risultati in qualche modo suscettibili di un riscontro sulla ricerca storica. Forse il lavoro su Andrea Palladio, che Eisenman sta conducendo attualmente, fornirà ulteriori occasioni di discussione su questo tema.
Roberto Dulio, Architetto