di Federico Bucci
Raphael Soriano, Wolfgang Wagener, Phaidon, London, 2002 (pp. 224, s.i.p.)
“Ni escrito ni estampado se puede descrivir”. Con questo vecchio adagio spagnolo l’architetto californiano Raphael Soriano (1904-1988) inizia la sua autobiografia, mai portata a termine. Era un messaggio rivolto agli storici del futuro, un chiaro invito ad occuparsi solo delle sue opere realizzate.
Strana raccomandazione per un progettista che deve gran parte della sua fama, in verità scarsa e certamente non all’altezza della bravura, alle celebri fotografie dei suoi edifici, firmate da Julius Shulman (tra l’altro, cliente dell’architetto). In ogni caso, nel redigere questa monografia, la prima dedicata a Soriano, Wolfgang Wagener tiene conto di questo avvertimento, anche se indulge un po’ troppo sulle fotografie d’epoca – l’occhio del fotografo meritava forse una riflessione a parte – e nel finale non resiste alla tentazione, in linea con le recenti svolte della storiografia architettonica, di raschiare il fondo degli archivi ripubblicando qualche reperto scritto. In questo caso l’autobiografia interrotta di Soriano, conservata nell’archivio dell’architetto alla California Polytechnic University di Pomona e riproposta in appendice al volume, dice veramente poco sia del personaggio, sia della sua filosofia architettonica.
Wagener avrebbe fatto meglio a citare le dichiarazioni di Soriano, riportate da Olivier Boissière, in un articolo sui “nipoti di Mies” pubblicato su Domus nel 1981. È una confessione senza peli sulla lingua, un po’ tagliata nella traduzione italiana. La riproponiamo nella versione originale: “Io sono italiano di nascita (sono nato a Rodi), ma sono arrivato negli Stati Uniti nel 1924. A quel tempo l’insegnamento dell’architettura in California era basato su un approccio Beaux Arts: ordini, colonne, foglie d’acanto, un apprendistato stilistico. È possibile, mi chiedevo, che lo stile si riferisca solo a piccoli dettagli ornamentali? Mi chiamavano architetto senza talento. Eppure, ora sono qui, uno dei trenta architetti americani scelti per rappresentare la storia dell’architettura americana dall’Indipendenza ad oggi, nella rassegna del Bicentenario. In buona compagnia! Con Frank Lloyd Wright, che non mi piace; Yamasaki, troppo abile; Jefferson, un onesto ma inelegante copista; Soleri, architetto con una fantasia regressiva; Neutra (no comment); Corbu (no comment); Louis Kahn, un imbecille influenzato da Gropius. L’architettura è una cosa veramente interessante, ma tu non puoi dirle cosa fare: è lei a dirci cosa vuole. La forma non è artificiale, come un imballaggio per qualsiasi prodotto. L’architettura deve essere il risultato di un processo, e questo non può derivare da una forma preconfezionata. (...) Ah, il grande Mies: ecco qualcuno che aveva stile! L’altro anno Johnson mi ha chiamato e mi ha detto: ‘Vieni anche tu al congresso, Raphael? Ci hanno lasciato solo in due’. Ho replicato: ‘Dopo l’ATT io sono rimasto l’unico’. Con il mio amico Buckminster Fuller, il solo americano che ammiro! Lui è grande, il massimo; l’uomo che rispetto di più insieme a Nervi e Candela”.
Da queste parole possiamo capire il carattere di Raphael Soriano, architetto e musicista, ebreo sefardita, greco di nascita (‘italiano’ del Dodecanneso per una decina d’anni), immigrato felice d’essere americano e nello stesso tempo orgoglioso difensore di un ideale di bellezza moderna piuttosto distante dalle consuetudini della società americana. Sono proprio questi ideali, tradotti in architettura, ad essere al centro dell’attenzione del pregevole studio di Wagener.
Emerge in queste pagine il vero ritratto di un architetto che, per troppo tempo, è stato confinato all’interno dello straordinario esperimento delle “Case Study Houses”. La conoscenza dell’opera di Soriano ha sofferto infatti l’ombra del Case Study House Program, l’esperimento edilizio promosso a partire dal 1945 dalla rivista Art & Architecture diretta da John Entenza. In quell’occasione, le colline del sud della California facevano da sfondo a sobri ed eleganti spazi domestici costruiti con struttura in acciaio e tamponature in vetro.
Una vicenda straordinaria per la cultura architettonica americana, il cui esito fallimentare, dovuto alla difficoltà di reperire committenti, non ne scalfisce l’immagine d’avanguardia – coraggiosa, finemente intellettuale, politicamente scomoda per epoca e luogo – oggi rivisitata e celebrata con libri e mostre. Raccogliendo l’eredità delle sperimentazioni costruttive californiane di Neutra, Shindler e Wright, quel programma forniva una soluzione ideale alla riconversione dell’industria bellica, il famoso “Arsenale della Democrazia”. Entenza gestì l’iniziativa con grande abilità. Tra le firme più conosciute invitate a progettare, possiamo citare lo stesso Neutra, insieme a Charles Eames, Eero Saarinen e William Wilson Wurster; mentre Raphael Soriano, Craig Ellwood e Pierre Koenig, coinvolti nella seconda fase avviata nel 1950, rappresentavano rispettivamente la generazione intermedia e le giovani promesse (in ordine d’età si andava dai 43 anni di Soriano fino ai 25 di Koenig).
Ma per completare il quadro dei personaggi di questa avventura è necessario citare il nome del fotografo Julius Schulman (sue le vedute diurne e notturne di molte Case Study Houses) e soprattutto quello di Esther McCoy, la voce narrante che contribuì non poco con i suoi scritti, tra cui il famoso libro Modern California Houses del 1962, al successo dell’architettura moderna californiana. Ma l’unica Case Study House progettata da Soriano, pubblicata più volte da Art & Architecture nel 1950 e realizzata a Pacific Palisades, coronava in realtà un lavoro sulle strutture d’acciaio da tempo portato avanti dall’architetto.
Oltre ai tentativi effettuati con le case Lipetz (1936) e Katz (1942-47), e con il Latz Memorial Jewish Community Center (1939), Soriano esprime al meglio le potenzialità della struttura d’acciaio con la casa per Shulman, progettata tra il 1947 e il 1949, inaugurata nel marzo 1950 e oggi Cultural Heritage Monument della contea di Los Angeles. La griglia strutturale è di 2,4 x 3 metri, con travi in acciaio di 25 cm e pilastri tubolari cavi da 8,8 cm di diametro. Nella geometrica modularità del modulo trovano posto quelle geniali soluzioni spaziali che caratterizzano l’unicità del lavoro di Soriano, come le pareti diagonali e i patii a cielo aperto.
In questa casa, inoltre, il giardino progettato da Garrett Eckbo, paesaggista di notevole talento, intrattiene un serrato dialogo con la struttura industrializzata di Soriano. Dunque, a prima vista, sembra aver ragione Reyner Banham, quando nel 1971, riferendosi alle case angelene di Eames, Soriano, Elwood e Koenig, scrive che “quest’architettura fatta di eleganti omissioni realizza in modo compiuto l’aforisma di Mies van der Rohe del Weniger ist Mehr ed ancor più di quanto abbia mai fatto lo stesso maestro”. Eppure, gli sviluppi successivi dell’opera di Soriano, su cui Wagener avrebbe potuto soffermarsi con maggior pazienza, contraddicono il perentorio giudizio di Banham.
Gli edifici realizzati a partire dagli anni Sessanta, e l’esperienza imprenditoriale avviata dall’architetto con il brevetto di un sistema costruttivo tutto in alluminio (Soria Structures Inc.), conducono il lavoro di Soriano lontano sia dalla monumentalità miesiana, che dalle più o meno raffinate interpretazioni dei suoi epigoni californiani. Fin dagli esordi negli anni Trenta, nello studio di Neutra, Soriano è rimasto sempre coerente nella ricerca di una architettura a basso costo, ad alta tecnologia, pensata per una società la cui industrializzazione fosse in armonia con l’ambiente naturale. L’arte del costruire nel paesaggio diventa così una vera e propria missione spirituale. Il Mediterraneo, la musica e la religione, hanno avuto un peso non indifferente in questa personalissima traduzione architettonica del sogno californiano.
Federico Bucci insegna Storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Milano
Case per il sogno americano
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- 17 novembre 2003