La carriera di Vittorio Gregotti (Novara, 1927-Milano, 2020) attraversa più di sette decenni di storia dell’architettura italiana e mondiale, a partire dall’immediato Dopoguerra. Gregotti compie i suoi studi di architettura al Politecnico di Milano a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, in un’epoca cruciale di messa in discussione dei paradigmi del Movimento Moderno.
Già prima della laurea (1952), partecipa ad alcune importanti occasioni di riflessione sulla disciplina: aderisce all’MSA – Movimento di Studi per l’Architettura, fondato a Milano al termine del conflitto, ed è presente al C.I.A.M – Congresso Internazionale di Architettura Moderna di Hoddesdon (1951), in qualità di studente e collaboratore di Ernesto Nathan Rogers (1909-1969).
Il giovane Vittorio Gregotti si forma in un primo momento nel milieu culturale raccolto attorno a Rogers e alla rivista Casabella Continuità, diretta da quest’ultimo tra il 1953 e il 1965. Gregotti è a capo di una redazione di cui fanno parte tanti altri protagonisti della sua generazione, tra cui Gae Aulenti (1927-2012), Giorgio Grassi (1935) e Aldo Rossi (1931-1997). Nel tempo, dimostrerà di saper incarnare al pari o anche più rigorosamente di molti colleghi la figura dell’architetto-intellettuale come intesa dal maestro Rogers.
Negli anni ’50 è chiamato ad insegnare allo IUAV – Istituto Universitario di Architettura di Venezia da Giuseppe Samonà, che con Rogers è uno dei principali animatori del dibattito sull’architettura dell’epoca. Nel 1962 pubblica la prima edizione de Il territorio dell’architettura, che ridefinisce la scala di riferimento della disciplina, ma anche e soprattutto la modalità di relazione tra l’oggetto architettonico e la città, il territorio, la geografia. Con L’architettura della città di Aldo Rossi (1966) si tratta del più importante contributo teorico del decennio.
Dal 1974 al 1976 è direttore del settore arti visive della Biennale di Venezia, che su sua iniziativa include per la prima volta anche l’architettura. Prosegue la sua attività di teorico e pubblicista fino agli anni 2010, in particolare come direttore di Casabella tra il 1982 e il 1996, ma anche come opinionista sulla stampa generalista (soprattutto sul Corriere della Sera).
Vittorio Gregotti fonda il suo primo studio professionale nel 1953, con Lodovico Meneghetti (1926) e Giotto Stoppino (1926-2011). Molte opere di Architetti Associati Gregotti Meneghetti Stoppino appartengono a pieno titolo alla breve stagione Neoliberty. Più di altri progetti, è l’edificio per uffici a Novara (1959-1960) a dimostrare l’interesse del trio per un rinnovamento linguistico dell’architettura, basato anche sul recupero di una componente ornamentale di origine pre-modernista. I tre edifici per abitazione, realizzati negli anni ’60 a Milano su commissione della "Società cooperativa Un Tetto", sono piuttosto l’esito di una sperimentazione tecnologica sulla prefabbricazione, applicata ad esempio ai pannelli di facciata.
Sciolto il sodalizio con Meneghetti e Stoppino, nel 1974 Vittorio Gregotti apre Gregotti Associati International. È in questo decennio che la sua attività di progettista ha modo di confrontarsi con la scala del territorio. Il progetto per l’Università della Calabria nei pressi di Cosenza (1973-1979), che segue quelli per l’Università di Palermo (1971-1982) e per l’Università degli Studi di Firenze (1971), è un esperimento megastrutturale realizzato solo in parte e con ampie rettifiche. Gregotti affida alla forma architettonica il compito di riammagliare ed ordinare un territorio dalla struttura fragile.
Su di una simile strategia è impostato il progetto di edilizia economica popolare a Cefalù (1976-1979), composto da una sequenza di viadotti lineari e paralleli, che attraversano la vallata a monte del centro storico. Il quartiere Z.E.N. – Zona di Espansione Nord di Palermo (iniziato nel 1969), organizzato da una griglia rigorosa ma anche rigida, è un tentativo ambizioso e sfortunato che appartiene, cronologicamente e concettualmente, alla stessa epoca.
Tra gli anni ’80 e ’90 Vittorio Gregotti prende chiaramente le distanze sia dal Postmodernismo di matrice più storicista che dal nascente Decostruttivismo. Progetti come il quartiere residenziale nell’area ex-Saffa a Venezia (iniziato nel 1984), la nuova sede della Regione Marche ad Ancona (iniziata nel 1987), la ristrutturazione della sede del Corriere della Sera a Milano (1988) e lo stadio Luigi Ferraris a Genova (1990) si basano tutti su di un approccio convintamente anti-spettacolarista. Pur privi di particolari accenti vernacolari, rifuggono dalla novità e ricercano un legame di continuità con la lunga durata della storia dell’architettura.
La trasformazione dell’area Pirelli nel quartiere Bicocca di Milano, compiutasi nell’arco di più di vent’anni a partire dal 1985, è certamente l’opera più significativa dell’intera carriera di Gregotti, che ne realizza il masterplan e quasi tutti gli edifici. A prescindere dai suoi esiti contraddittori, l’operazione Bicocca resta un episodio cruciale nella storia dell’urbanistica italiana, e in particolare della delicata fase di de-industrializzazione delle metropoli del Nord.
Fuori dall’Italia, Gregotti acquisisce notorietà in un primo momento come teorico, anche grazie alle numerose traduzioni de Il territorio dell’architettura, e solo successivamente come progettista. Intrattiene legami molto stretti sia con la Scuola di porto, e con il suo principale protagonista Álvaro Siza (1933), sia con gli architetti della scuola ticinese come Mario Botta (1943). Tra le sue opere più importanti realizzate all’estero spiccano il Centro culturale a Belém a Lisbona (1988-1993), esempio di applicazione fortunata e “logica” (nell’accezione che Grassi dà del termine) dell’impianto a griglia, lo Stadio Olimpico di Barcellona (1985-1989) e il lavoro ventennale sulla new town di Pujiang, nella regione di Shanghai, iniziata nel 2000.
Nelle parole di Kenneth Frampton (sull’Università della Calabria):
Ciò che rende culturalmente rilevante il principio costruttivo/produttivo di tale progetto è l’aver rimosso la questione architettonica dalle rigide polarità dell’attuale dibattito ideologico: rendendola cioè egualmente distante sia dal positivismo delle posizioni populiste e neo-produttiviste, (…) sia dal negativismo del filone neorazionalista