Architettura educatrice: questa è la scuola secondo Domus 220, l’uscita monografica pubblicata nel giugno del 1947. “In pochi casi, come in questo tema della scuola, l’architettura presenta più stretta aderenza tra forma e contenuto (…). La parola dell’insegnante e il disegno dell’architetto collaborano ugualmente alla formazione del giovane”, afferma l’editoriale di Ernesto Nathan Rogers, che imposta le antinomie su cui si articolano le trattazioni di tutto il numero: disciplina e libertà (“i termini dialettici entro i quali si dibatte la piccola società scolastica), individuo e collettività (“l’armonia dell’ambiente educa certo a un equilibrio nei rapporti collettivi, mentre la chiara individuazione degli oggetti destinati a ogni singolo gli conferisce maggior dignità”), diritti (di cui la scuola è “la più gelosa matrice”) e doveri, risparmio e qualità (“bisogna riconoscere che alcune libertà costano economicamente meno di quel che si creda”).
In un Italia post-totalitaria e appena democratica, che sgombera le macerie della guerra e ancora quasi ignora il boom economico prossimo venturo, l’architettura si fa strumento di educazione anti-fascista. Lo chiarisce senza incertezze l'articolo di Ernesto Codignola, pedagogista tra i massimi del Novecento italiano, prima sostenitore del regime (negli anni ’20 collaborò con Giovanni Gentile alla stesura della riforma scolastica, che Mussolini definì “la più fascista delle riforme”) e poi militante attivo contro di esso. Certamente più incisivo del breve editoriale rogersiano, l’intervento su Scuola, palestra di vita, a firma di “uno dei più illustri e combattivi educatori italiani” è intriso d’impulsi rivoluzionari: “Occorre cominciare la rivoluzione dall’ordinamento esterno. Cancellare persino le tracce della passività, abolire i banchi, le cattedre, le suppellettili didattiche, i libri di testo, testimonianze di mediocrità pretenziosa”. La deprecazione della scuola dell’epoca, che “pretende di educare alla libertà e all’iniziativa individuale attraverso il meccanismo e la schiavitù”, è la premessa all’esaltazione di una modalità d’insegnamento attivo e responsabilizzante. “Libertà” (termine che, con i suoi derivati, ricorre per ben sei volte nel testo), “responsabilità” e addirittura “autogoverno” sono i poli su cui si deve concentrarsi l’istituzione scolastica per trasformarsi da “prigione” in vera “comunità”.
Se l’approfondimento ampio e ben illustrato sulle scuole rurali di Amos Edallo (architetto cremonese, che dedicò lunghi studi alle condizioni specifiche della sua campagna d’origine) si focalizza su di un mondo agricolo al tempo ancora vivissimo, ma destinato in pochi anni a subire profonde e irreversibili trasformazioni, i testi successivi sono dedicati a due temi per molti versi complementari, e ancora attualissimi. Eugenio Tedeschi affronta Il problema dell’aula, l’unità minima dello spazio scolastico, mentre Giancarlo De Carlo, futuro inventore di Urbino città universitaria, riflette su La scuola e l’urbanistica.
Esempi virtuosi americani, svizzeri e danesi, e una serie di belle illustrazioni tratte dal numero 99 di Architectural Record (First postwar school, del 1946) supportano l’excursus di Tedeschi sulle caratteristiche fondamentali della “scuola di domani”. La flessibilità, l’illuminazione e la ventilazione bilaterale, la possibilità di svolgere le attività didattiche almeno in parte all’aperto sono le qualità ambientali che l’autore presenta come standard indispensabili, in gran parte inattuati tanto alla fine degli anni ’40 quanto al giorno d’oggi. Anche De Carlo individua in alcune esperienze estere (in Svizzera, Olanda, Inghilterra e soprattutto Stati Uniti) un modello di riferimento a cui ispirarsi. Sono i paesi in cui forme avanzate di pianificazione riconoscono che “il problema urbanistico della scuola è il problema urbanistico della città”. Nella visione di De Carlo, i due termini finiscono per coincidere: “la scuola [è il] nucleo della vita sociale, strettamente legata alla vita della collettività, non limitata nel tempo e nello spazio, estesa all’intera esistenza del cittadino e a tutto l’ambiente della città”.
La cornice culturale del discorso è impostata. La seconda parte del numero ne rafforza i contorni attraverso una carrellata di progetti esclusivamente stranieri: dalla Svizzera (con il testo dell’architetto Alfred Roth che rispolvera le teorie di Johann Heinrich Pestalozzi, utilizzate come termine di paragone per verificare la riuscita delle scuole elvetiche moderne) alla Svezia, dall’Inghilterra agli Stati Uniti (il lettore contemporaneo, accompagnato dalle parole dell’educatore Carleton W. Washburne alla scoperta di una scuola elementare di Eliel e Eero Saarinen nei pressi di Chicago, non potrà non stupirsi della presenza al suo interno di una “stanza del pioniere”, che riproduce fin nel minimo dettaglio le condizioni di vita dei primi colonizzatori americani).
Domus 220 conferma che l’Europa e l’America restano, all’uscita dalla guerra, uno degli orizzonti di riferimento fondamentali per la cultura architettonica italiana, che rivendica la sua esterofilia anche e soprattutto per smarcarsi nettamente dal passato prossimo fascista. L’edilizia scolastica si configura qui come un filtro, un caso studio più che mai appropriato attraverso il quale la rivista afferma con chiarezza la sua posizione nel dibattito sulla ricostruzione del paese. Domus vuole partecipare al progetto di un’Italia che sia in tutto e per tutto “schiettamente moderna e liberale”, a partire dalle scuole che ne formeranno i cittadini del futuro.