Lina Bo Bardi (1914-1992) fu la moglie di Pietro Maria Bardi, critico d’arte “scomodo”, e collaborò con Giò Ponti, il padre indiscusso del design italiano. La storiografia della architettura brasiliana moderna, inoltre, la considera solitamente come la controparte femminile di Oscar Niemeyer, archistar ante-litteram giustamente decantata dalla critica.
A prescindere dagli uomini potentissimi tra i quali s’inquadrarono la sua vita personale, la sua carriera e la sua fama presso i posteri, Lina Bo Bardi fu la più originale e autorevole architetta del XX secolo. È tra le pochissime donne ad essersi ritagliata un meritato posto al sole nelle storie dell’architettura moderna, scritte quasi del tutto al maschile.
L’Italia e il Brasile: Bo Bardi fu una migrante (di prima classe) che stabilì un legame virtuoso tra le sue due nazioni. Nata come Achillina Bo a Roma e cresciuta nella capitale, si laureò nel 1939 alla Sapienza, per poi trasferirsi a Milano nel 1940, in uno dei momenti più oscuri nella storia della città. Qui, s’inserì rapidamente nel vibrante milieu culturale locale, entrando in contatto con Bardi e Ponti. La conoscenza di quest’ultimo l’avvicinò a Domus, di cui fu brevemente co-direttrice con Carlo Pagani, e a Stile, con cui collaborò. Lavorò anche per L’Illustrazione Italiana e per molte altre riviste, e nel 1943 fondò A-Attualità, Architettura, Abitazione, Arte, con Pagani e con il supporto di Bruno Zevi.
I bombardamenti a tappeto del capoluogo lombardo distrussero anche il suo studio in via del Gesù, ma già nel 1946 per i coniugi Bo Bardi si aprì una nuova, entusiasmante prospettiva. Assis Chateaubriand, imprenditore e collezionista d’arte, assunse Bardi per fondare e dirigere il nuovo Museo di Arte Moderna di San Paolo del Brasile. I giovani sposi accettarono l’invito e lasciarono per sempre il vecchio continente.
Fu l’occasione della vita tanto per Pietro quanto per Lina, che ricevette l’incarico per la progettazione della nuova sede dell’istituzione, sull’Avenida Paulista. Concepito come un colossale ponte di vetro, sospeso tra due impressionanti travi di cemento precompresso dipinte di rosso accesso, il MASP (1958-1967) resta uno dei suoi edifici più sorprendenti. Sotto e sopra la piattaforma si trovano rispettivamente una piazza pubblica e l’open space per le esposizioni, liberato di ogni accidente. Sono due spazi di libertà concettualmente senza confini, portati a compimento in un’epoca in cui la dittatura militare aveva già avuto la meglio sulla scricchiolante democrazia brasiliana.
Il MASP è un’icona della così detta architettura brasiliana paulista, che la critica contrappone al movimento carioca, di cui Niemeyer fu il più grande interprete. In termini meno geograficamente connotati, può essere considerato un capolavoro brutalista, opera di un’architetta terribilmente talentuosa. D’altra parte, difficilmente un unico stile, un’unica scuola o una singola professione possono bastare per descrivere la carriera di Lina Bo Bardi che, ben prima che il museo vedesse la luce, si era già avvicinata ai molti campi del progetto che era interessata ad esplorare. Da questo punto di vista il 1951 fu certamente un momento cruciale. In quell’anno si concluse il cantiere della Casa de Vidro, il suo primo considerevole risultato in ambito architettonico. Costruita come sua residenza privata, seminascosta ai margini della foresta tropicale nella periferia di San Paolo, l’edificio è una palafitta delicata e trasparente. La glass box modernista, sospesa a mezz’aria, vuole innanzitutto dialogare rispettosamente con la natura in parte selvaggia che la circonda. La Bowl Chair, il più famoso degli oggetti di Bo Bardi, fu disegnata contemporaneamente e specificamente per la Casa de Vidro, dove trovarono posto gli unici due esemplari realizzati all’epoca. Inoltre, sempre nel 1951 Bo Bardi fondò con il marito la rivista trimestrale Habitat, confermando così il suo interesse per il giornalismo e la critica di architettura.
I sette anni che trascorse a Salvador de Bahia, tra il 1958 e il 1964, la arricchirono di una conoscenza più profonda ed immersiva della cultura e delle tradizioni del Brasile, il paese che era solita definire la sua “nazione per scelta”, e che quindi a suo parere lo era “due volte tanto”. I suoi progetti a Salvador, per la maggior parte costruiti dopo il suo ritorno a San Paolo, fondano una nuova genealogia dell’architettura brasiliana contemporanea. La liberano dall’influenza del modernismo europeo, e ricercano piuttosto le sue radici alternative nel passato del Brasile pre-moderno. Oltre a moltissimi allestimenti e scenografie teatrali, l’opera architettonica di Lina Bo Bardi a Salvador include la ristrutturazione del Solar du Unhão per adibirlo a sede del nuovo MAMB (Museo di Arte Moderna di Bahia) e del Museo di Arte Popolare (1959-1963), il teatro Gregório de Matos (aperto al pubblico nel 1986), la Casa do Benin (1987) e il ristorante Coaty nel quartiere della Ladeira da Misericordia (1987-1990). Tutti i suoi progetti degli anni ’80 furono realizzati nel quadro del piano per il recupero del centro storico della città, da lei impostato subito dopo la sua iscrizione nella lista del patrimonio mondiale UNESCO.
L’ampio uso del cemento a vista e le aperture di forma irregolare, senza vetri né telai, sono le caratteristiche più salienti del teatro e del ristorante di Salvador, ma anche di un altro, fortunatissimo progetto di Bo Bardi dello stesso periodo: il SESC Fábrica Pompeia (1977-1986) a San Paolo. Le passerelle aeree di collegamento tra le torri, al cui interno i campi sportivi si sovrappongono su più livelli, i pannelli di legno rosso che schermano le cavità scavate nei loro involucri di cemento, o ancora lo specchio d’acqua che attraversa i magazzini riconvertiti, sono tra le immagini più memorabili della sua opera. Nella stessa città e nello stesso decennio, l’ultimo della sua attività, Lina Bo Bardi concepì quello che è probabilmente il suo progetto più impegnato sul piano sociale, politico e culturale. Il Teatro Oficina (1980-1994) sovverte le gerarchie spaziali del teatro borghese: non esistono confini tra gli attori, che recitano su di una strada interna allungata e connessa alla città, e il pubblico, che occupa l’impalcatura leggera e smontabile che la fiancheggia.
Con quest’opera matura, Lina Bo Bardi si avvicinò più che mai all’idea di architettura su cui aveva riflettuto e che aveva tenacemente cercato di concretizzare per tutta la sua carriera: nelle sue parole, “un’architettura collettiva, un atto culturale che si differenzia dalla violenta imposizione della cultura di alcuni sugli altri, come individualismo arrogante”. Un’eredità d’importanza vitale per l’architettura dei nostri giorni, e un antidoto potente contro i suoi eccessi comandati dai capricci del mercato.
Nelle parole di Olivia de Oliveira:
L'architettura di Lina Bo Bardi si arricchisce dell’inaspettato, del caso, della precarietà e della mancanza si risorse. È un tipo di procedura molto simile alle usanze popolari, all’arte kitsch, che a partire dalla scarsità dei mezzi ottiene il massimo dell’espressività. L’opera di Lina Bo Bardi si fa portavoce di una critica potente contro la società corrotta dal consumismo