Death, debts, divorce. La catastrofe Covid-19 suggeriva d’iniziare così il caffè (virtuale) con Clarice Pecori Giraldi, grande dame del mercato dell’arte globale anch’esso alle prese con la pandemia. Alle prime parole però di questa signora nata a Firenze da viaggiatori toscani, 13 scuole cambiate prima della maturità, tre lingue compiute e una laurea interrotta “per andare al Belvedere a emozionarmi con Klimt e Schiele”, le tre D del mercato secondario non potevano che scivolare al congedo.
Il mercato dell’arte? In teoria è l’incontro tra la domanda e l’offerta di opere d’arte. In pratica molto di più, la capacità di dare un valore economico all’arte.
La signora chiarisce l’equivoco di fondo, un’arte separata dal mercato dell’arte. Un mito radicato, ma soprattutto radical (chic), che solo buoni studi, visione lucida e uso di mondo dissolvono. “Quando diciamo opera d’arte siamo portati a pensare all’arte classica, un quadro del Cinquecento, una scultura romana. Ma le cose sono più complesse perché sotto questo ombrello ci sono auto, vini, borse, orologi, gioielli e fucili. E altri oggetti diversi, come pizzi e francobolli più legati al mondo artigianale. Questo è il mercato, questa è l’arte”.
L’eleganza di Clarice, che suona decisamente meglio di quella del riccio, non ha bisogno di giri di parole per fugare grossiers malentendus.
“Tutte le opere d’arte possono essere scambiate? Quelle in qualche maniera usufruibili, sì. Il Pantheon invece resta difficile scambiarlo, quindi è arte, ma non è mercato”. Sul contemporaneo, poi. “Per la definizione commerciale è la fetta di mercato concepita ed eseguita da artisti viventi. L’artista oggi è valorizzato per la sua invenzione più che per la competenza o la tecnica, che spesso rivolge a temi attuali diversi, quindi, da cosa era attuale 200 anni fa. La domanda è quali opere prodotte oggi rimarranno rilevanti domani, a esigenze mutate”.
Clarice cerca una metafora, poi una metonimia, quindi scegliere un paragone. “Continuo ad ascoltare i Bee Gees perché mi piacciono, mentre mia figlia Giulia mi prende in giro trovandoli superati e orrendi. Ha ragione lei, naturalmente. A me e ad altri piacciono, ma siamo sempre meno, quindi li passano meno in radio perché vendono meno. Nell’arte è lo stesso. Oggi c’è Banksy, e ci sarà anche tra 30 anni, ma allora ci saranno altri più in sintonia di lui con la realtà di quel momento. Oggi Banksy vale molto perché è molto richiesto, allora sarà ancora richiesto, ma altri saranno più richiesti e quindi più cari”. Come in ogni caffè, l’ultimo giro di cucchiaio è il più difficile. Il salto dal contemporaneo al classico. E infatti, mentre io pensavo alle Notti attiche di Aulo Gellio, il primo testo dove si stabilisce cosa è classico, Clarice sorride e riporta tutto alla realtà.“Il grande passaggio è quando un artista da rappresentare la sua generazione e il suo linguaggio inizia a rappresentare più generazioni e linguaggi. Banksy piace ai ragazzini di 20 anni e ai collezionisti storicizzati di 60. Piacere, però, non è la parola corretta, diciamo che entrambi lo riconoscono. La storicizzazione e valorizzazione dell’arte si ha quando appaga me, ma anche gli altri, possedendo un elemento universalmente riconoscibile. Perché l’arte resta anche vanità di riconoscimento, di appartenenza e, certo, di status. Se ho una litografia di Banksy sopra il divano e invito a casa ospiti che la riconoscono, allora mi riconoscono. Se posto Banksy su Instagram chi mette il like si riconosce nella mia identità e insieme facciamo comunità. Il mercato si solidifica quando questa appartenenza si allarga oltre la generazione di Banksy. Per questo, viviamo una riduzione dell’arte antica e del suo mercato. Perché oggi quanti sanno che Paolo di Tarso è caduto da cavallo folgorato? Ecco spiegato perché l’arte che raffigura questa scena ha meno mercato, quindi vale meno”. Il tempo fugge. “Studiare il passato non va più di moda, tantomeno nell’arte il cui studio è stato abolita anche nelle scuole. Questo spiega non solo la riduzione del mercato dell’arte classica e moderna, ma anche il fenomeno dei critici d’arte sui social media. Sostituiscono quelli del passato, con la differenza che quelli là studiavano mentre questi no. D’altra parte, c’è una tale esplosione di offerta artistica, dall’Africa all’Asia, che deve essere filtrata per arrivare a collezionisti, gallerie e musei. Questa la loro funzione, che svolgono come possono, e che ognuno è libero di seguire o abbandonare”.
Non si può congedarsi da Clarice Pecori Giraldi senza una domanda sul collezionismo. “Oggi gli acquirenti sono meno colti rispetto ai decenni passati; l’acquirente-tipo è meno borghese e ha un profilo più manageriale. Alcuni collezionano per fare un investimento economico, ma a tutti sempre interessa quello emozionale. Corrisponde al bisogno di essere circondati da opere che ci parlino, per qualcuno un manoscritto del Cinquecento, per altri una foto di Giacomelli, per altri ancora un orologio. Alla luce di quanto stiamo vivendo, però, tutto diventa irrilevante, perché per tutti le priorità sono cambiate o stanno cambiando. Collezionare, però, corrisponderà sempre a costruire un’identità da tramandare”. Un momento. E le tre D del mercato secondario? “Quella che si sentirà di più saranno i debiti”, sorride Clarice, “nel senso che oggi c’è la possibilità di utilizzare le opere d’arte come collateral per i prestiti. Poi però leggo che in Cina già si assiste a un revenge shopping, per cui finita la quarantena si tornerà a una liquidità monetaria in forma altra. Ecco, preferisco immaginarmi il futuro così”.
Clarice Pecori Giraldi Oltre a una lunga carriere nel mondo delle case d’asta (Sotheby’s Italia, Christie’s Italia, Christie’s Europa e Phillips), Clarice Pecori Giraldi è stata anche head of communication per Prada e Ferragamo e vicepresidente della Triennale. Fa parte del CdA della Fondazione San Patrignano, di cui cura la collezione d’arte, ed è consigliere del FAI.