Cominciamo con un sguardo ai rapporti tra le città. La prima dinamica che vedo è una dinamica di competizione: le città competono tra di loro per attirare investimenti, perché non si ha più molta fiducia nei modelli di sviluppo endogeni, quindi basati sulle forze locali, ma ci si affida sempre più a modelli di sviluppo legati a investimenti, tecnologie, risorse materiali e immateriali che vengono dall’esterno. Si tratta di un modello di sviluppo che privilegia le politiche che favoriscono l’attrattività della città. Ma si tratta anche di un modello che crea vincitori e vinti, un gioco a somma zero fra città che emergono e città che non ce la fanno e declinano. Certo, se guardiamo a Milano vediamo una città in crescita e che si posiziona oggi tra le città vincenti nel panorama europeo. Abbiamo una crescita della popolazione dopo anni di declino, con l’ingresso di 50.000 giovani che sono venuti magari a Milano per l’Università e poi hanno deciso di rimanere perché trovano lavoro; oppure guardiamo agli 8 milioni di turisti che l’anno visitata l’anno scorso. Questi successi però mi sembra siano dovuti più a politiche che hanno migliorato la qualità della vita dei cittadini e offerto possibilità nuove, che a qualsiasi politica di attrazione. Il modello Milano insomma cerca di tenere insieme sviluppo e inclusione sociale e non sacrificare sull’altare della competizione tra città la sua tradizionale attenzione ai ceti sociali meno abbienti. La dinamica della competizione tende ad aumentare le differenze tra città, gli squilibri territoriali, mentre sarebbe opportuno stimolare una crescita distribuita nei suoi benefici a tutto il sistema sociale, urbano e non.
Serena Vicari
La città e il suo futuro: modelli da cambiare, sfide da vincere
Se guardiamo alle città oggi, ci colpiscono le dinamiche che riguardano il rapporto tra queste nel sistema urbano più generale, da un lato, e dall’altro i processi attivi al loro interno.
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- Serena Vicari
- 25 ottobre 2018
Per quanto riguarda invece le città al loro interno vediamo una prima dinamica importante che riguarda i cambiamenti della struttura sociale delle singole città. Parlo della crescita delle disuguaglianze e della polarizzazione sociale che sono esito della globalizzazione economica. Si tratta di una dinamica che interessa particolarmente le grandi città in generale e le città italiane in particolare tra le città europee; ricordiamo che il nostro Paese ha uno dei livelli più elevati di disuguaglianza sociale in Europa. Se come diceva Bertrand Russell la coesione sociale è una necessità non si vede come la città possa resistere coesa a fronte di disuguaglianze così forti; queste producono infatti potenziali di conflittualità e di disgregazione che non possono essere sottovalutati poiché minano le condizioni di base per qualsiasi sviluppo. La grande sfida è quindi contrastare i processi che producono disuguaglianza con politiche che da un lato proteggano i gruppi sociali più deboli e dall’altro preservino la classe media, che si è impoverita e assottigliata: una regolamentazione intelligente del lavoro, investimenti nei beni pubblici come educazione e sanità per esempio, ma anche gestione dell’acqua come vuole il movimento che promuove la ri-municipalizzazione delle società di servizio idrico, a Parigi come a Napoli. Si tratta di un movimento che riguarda anche altri servizi e che sta raccogliendo consensi in molte città. Per Milano mantenere nella città un tipo di lavoro che non sia dequalificato e che possa attirare quella che viene chiamata la classe creativa, i talenti, vuole dire preoccuparsi del benessere dei suoi cittadini e di alimentare l’innovazione nei settori del design, della moda, della pubblicità, ma anche alcuni settore all’avanguardia della tecnologia e nelle bioscienze, in modo che questi talenti rimangano in città e vengano a Milano invece di andare in una altra città europea. Produrre uno sviluppo diverso, più equilibrato e generatore di maggiore occupazione vuole dire scegliere un modello che dia spazio alla innovazione sociale, cioè a tutte quelle pratiche che sorgono su iniziativa di gruppi di cittadini e piccoli imprenditori per rispondere a bisogni che lo Stato, con la contrazione del Welfare e le politiche di austerità, non riesce più a soddisfare. E’ una dinamica stimolata dalle istituzioni, in particolare, dalla Comunità Europea, che porta a una grande attivazione di quella che si chiama la società civile, cioè meccanismi di imprenditorialità dal basso di lavoro parzialmente volontario ma anche di occupazione reale.
Una seconda dinamica che osserviamo e che va contrastata è quella del progressivo disancoraggio del luogo in cui viviamo e del conseguente disimpegno rispetto alla vita collettiva. In altre parole possiamo dire che stiamo perdendo il senso di appartenenza a una comunità e di condivisione di risorse simboliche e immateriali che questo comporta. Abbiamo appartenenze magari multiple e virtuali a comunità di pratiche ma queste non possono supplire né ci mettono al riparo dal senso di isolamento e solitudine rispetto al luogo in cui viviamo. L’appartenenza a una comunità e la solidarietà che ne deriva sono invece elementi necessari, soprattutto in quest’epoca globalizzata, per la costruzione di identità stabili e la riduzione dell’incertezza. E’ un processo di indebolimento del radicamento che interessa tutti ma che è particolarmente forte per alcuni gruppi sociali: se da un lato c’è la nuova élite transnazionale e cosmopolita che vive esistenze multi-luogo e quindi tende ad avere scarso radicamento e totale disimpegno rispetto alla comunità locale, dall’altro ci sono gli immigrati e i nuovi poveri che sono esclusi da quei diritti di cittadinanza che consentono di partecipare appieno alla vita civile e di sentirsi parte di una collettività. Costruire o ricreare un senso di appartenenza e di inclusione nella comunità, coinvolgere, fare città in questo senso, è quindi un passaggio fondamentale per evitare la disgregazione del tessuto sociale, ma anche di quello economico.
La terza dinamica riguarda la progressiva differenziazione degli abitanti delle nostre città. Le esigenze di integrazione sono rese oggi più complesse dalla presenza nelle nostre città di popolazioni sempre più eterogenee e diverse per cultura, religione e stili di vita. La diversità è sempre stato un attributo dell’urbano e della sua intrinseca vocazione alla innovazione e creatività, ma oggi assistiamo a un crescendo di orientamenti negativi a questo riguardo, mentre le politiche non riescono a risolvere i problemi di disuguaglianza, frammentazione e segregazione che la diversità porta con sé. La ricerca di un equilibrio passa attraverso la predisposizione di misure che mettano a valore i benefici che derivano dal vivere in città cosmopolite e multiculturali.
Infine, non si può parlare di città e del loro futuro senza confrontarsi con il tema della loro sostenibilità nel tempo. Già oggi le città del mondo consumano l’80% dell’energia globale e producono il 75% delle emissioni di CO2, gli sforzi verso la sostenibilità saranno vittoriosi o sconfitti nelle grandi metropoli dove si stima che vivrà dal 70 all’80% della popolazione nel 2050. Un’urbanizzazione sostenibile richiede uno sviluppo compatto, orientato ai trasporti pubblici, alla riconversione degli spazi, ad ambienti adatti a pedoni e ciclisti, all’inclusione di obiettivi e criteri ecologici nelle linee guida e nelle politiche di governo. Sono quindi necessari nuovi modelli di sviluppo e più ampi quadri di orientamento delle politiche che tengano conto della sfida della sostenibilità.