Se siete soliti trascorrere I weekend sporcandovi le mani tra scatoloni polverosi alla ricerca di vinili, o se approfittate di ogni pausa sul lavoro per controllare l’app di Discogs, allora c’è la possibilità che vi siate imbattuti in diversi dischi giamaicani con più o meno espliciti riferimenti alle scarpe Clarks nei loro titoli. “Hold up your foot and show your Clarks booty,” canta con un inglese cadenzato dall’accento giamaicano Little John in una canzone del 1985 intitolata, per l’appunto, Clarks Booty.
Questa è soltanto una delle tante canzoni registrate a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 recanti titoli come Clarks Booty Style di Ranking Joe o “Clarks Booty Skank” di Trinity, contenenti frasi quali “Me ah wear Clarks” (Eek-A-Mouse, Wa Do Dem), o ancora caratterizzate dalla modifica dei testi per renderli in linea con la febbre da Clarks, come nel caso della ballata soul degli O’Jays Brandy nella versione reggae di Little John. Questo trend, mai del tutto sopito, è tornato prepotentemente in auge nel 2010 quando Vybz Kartel ha scalato le classifiche dell’isola con la hit Clarks, a cui è seguita un’impennata nelle vendite del brand.
Moda e musica si sono sempre evoluti mano nella mano, a tal punto che spesso sono i vestiti a definire un genere musicale nell’immaginario collettivo. Questo legame è ancora più evidente nel caso delle scarpe che, molte volte nella storia, hanno incarnato sia l’identità che gli stigma legati alla cultura giovanile, acquistando di conseguenza una dimensione simbolica tutta loro. Si pensi a come i poliziotti britannici fossero soliti sequestrare i lacci degli anfibi Dr. Martens agli skinhead per evitare che causassero disordini negli stadi, a come i casual, così innamorati delle loro scarpe da ginnastica, fossero soliti sfilarsele per poi ostentarle facendole battere assieme con le mani mentre facevano il tifo per la loro squadra, e ancora a come le Clarks siano diventate con il tempo un caposaldo dell’identità giamaicana. Per questo motivo quella tra Clarks e la Giamaica è una storia che va oltre la sola moda, raccontando più di quanto uno possa immaginare sul rapporto tanto ricco quanto sofferto tra l’isola e il Regno Unito.
“Il fenomeno di Clarks in Giamaica va oltre il footwear; racconta la storia di più di 100 anni di rapporto tra l’isola e il Regno Unito. Le prime scarpe possono essere datate all’epoca coloniale, quando, negli anni ‘20, le Clarks venivano viste come delle scarpe a cui aspirare perché arrivavano dalla Gran Bretagna. Analogamente, all’epoca ciò accadeva anche con altre scarpe britanniche o europee,” spiega Matteo Bellentani, head designer di Clarks, dalla storica sede del brand a Street, Somerset, poco distante dall’antica città termale romana di Bath.
E' stata, infatti, la musica ad aver innescato la scintilla da cui è nato il duraturo rapporto tra il marchio e la cultura giamaicana. I musicisti giamaicani che si recavano a Londra per registrare i loro dischi presso lo studio A-Class di Clapham, non appena avevano concluso il loro lavoro, si catapultavano al più vicino rivenditore di Clarks, spendendo buona parte del loro anticipo su una varietà di scarpe “di ogni taglia, stile e colore, era il marchio Clarks ciò che davvero contava” – scrive lo storico del reggae Noel Hawks, che negli anni ‘70 lavorava come rivenditore di dischi dub nella capitale inglese, in Clarks in Jamaica, esaustivo libro a cura del ricercatore e collezionista di dischi Al Fingers recentemente ripubblicato da One Love Books.
“L’impatto della diaspora giamaicana, quando tra il 1955 e il 1968 circa 200.000 persone emigrarono dalla Giamaica al Regno Unito, può essere tracciato anche in questo fenomeno. Questa comunità, come quella giamaicana negli Stati Uniti e in altre parti del mondo, era solita portare sull’isola le scarpe Clarks ogni volta in cui si tornava a visitare amici e famigliari, oppure gliele spediva. I giamaicani addirittura facevano delle vere e proprie gite a Street, la cittadina del Somerset in cui si trova il quartier generale del brand a partire dalla sua fondazione nel 1825. La leggenda e produttore del dancehall Ossie Thomas ha descritto quest’esperienza come un ‘pellegrinaggio’”, racconta Bellentani.
Oggetti del desiderio negli ambienti underground, le Clarks ci misero infatti poco ad acquistare connotati politici. I container di Clarks non facevano in tempo ad attraccare al porto di Kingston che, prontamente, venivamo alleggeriti di quante più scatole possibili dai giovani del posto. Identificate così come le scarpe dei ‘rudeboy’ – i fan e i DJ di musica ska, rocksteady e reggae che univano la coolness dei musicisti soul e hip hop americani all’eleganza di strada dei modernisti inglesi – e stigmatizzate come un capo caro agli ambienti della microcriminalità, le Clarks presto portarono la polizia giamaicana a fare irruzioni regolari nei sound system a caccia di giovani con ai piedi le famigerate ‘Clarks booty’.
“Tutto ciò rese le scarpe ancora più desiderabili agli occhi dei rudeboy di Kingston, al punto che chiunque venisse visto indossare modelli come le Desert Boot o le Wallabee diventava bersaglio delle forze dell’ordine. Ci sono storie interessantissime che riguardano rudeboy che spesso si trovavano a tornare a casa scalzi dai sound system dopo aver buttato via le loro scarpe per sfuggire ai raid della polizia,” spiega Bellentani.
“Come prevedibile, ciò rese le Clarks ancora più popolari e entro il 1971 i negozi giamaicani non riuscivano a tenere le scarpe in stock tanta era la domanda. Gli scaffali venivano letteralmente svuotati. Le Clarks erano infatti ostentate sulle copertine degli album di cantanti e dj reggae molto influenti. Poi, a partire dagli anni ‘80, questo amore per le Clarks passò dalle copertine ai testi delle canzoni: il primo esempio fu, nel 1985, Clarks Booty di Little John.
E’ il cantante stesso a dichiarare, “Amo le Clarks così tanto, e da così tanto tempo, che nella vita non voglio indossare nient’altro che Clarks.”
In un’epoca in cui la maggior parte della popolazione di Kingston si spostava a piedi, modelli quali le Wallabee, le Desert Trek e le Desert Boot – originariamente pensate come scarpe da utilizzare dall’esercito britannico nelle colonie e durante le campagne belliche in Africa –, grazie alle loro suole in crepe e al corpo ergonomico in pelle morbidissima, presto diventarono i capi di footwear più popolari sull’isola; mettendo così in luce come il design possa fungere da ponte tra l’estetica e le necessità più pragmatiche.
“Queste scarpe venivano viste come un mix del tutto unico tra l’eleganza del design britannico e la durabilità e la ruvidezza dello stile commando, che risultava dunque pratico e comodo da indossare in contesti urbani tropicali.”
Questa eredità culturale è diventata, dunque, cardine dell’approccio di Matteo al Jamaica Pack, una collezione dedicata (come la sua precedente ed omonima risalente al 2009) alla celebrazione del legame tra il brand inglese e la street culture dell’isola. Sviluppata attorno ai tre modelli di cui sopra, la collezione unisce ricerca d’archivio a elementi decorativi minimalisti che diventano un tributo alla Giamaica.
“L’approccio al design è stato semplice: una tomaia in morbida pelle nera di mucca e un’attenzione speciale per i dettagli che rimandano alla bandiera giamaicana come cuciture decorative di diverse dimensioni, estremità dei lacci colorate, suole in crepe nera – che in Giamaica sono anche note come ‘cheese sole’ –, i fob (i distintivi tag triangolari Clarks in pelle attaccati ai lacci, ndr), le solette e le nastrature in tessuto con il pattern della bandiera, e una versione ingrandita del ‘trek man’. Questo logo iconico raffigurante un omino in cammino con un bastone e uno zaino è apparso per la prima volta sul modello Desert Trek nel 1971, e da allora è stato chiamato ‘bank robber’, ‘rapinatore’, dai giamaicani,” spiega Bellentani.
“Inoltre, abbiamo anche arricchito la linea con una versione in edizione limitata in pelle scamosciata gialla nell'esclusiva colorazione Jamaica Bee. La ciliegina sulla torta, poi, è il packaging: il design della scatola è semplicemente magnifico.”
Nonostante Matteo ammetta che altri modelli meno noti, come le Lugger o le Polyvelts, avrebbero potuto essere riesumati dall’archivio, la scelta è ricaduta sui modelli più iconici in quanto strumentali nell’aiutare “i clienti più giovani a legarsi al brand, indossando le scarpe con outfit contemporanei. Questo, d’altronde, è il motivo per cui oggi Clarks originals ha un’importanza sul mercato come vera alternativa alle sneaker,” continua Bellentani.
“Così è stato quando le Wallabee diventarono popolari tra i B-boy di Brooklyn negli anni ‘90 e, allo stesso tempo, in Regno Unito durante la scena acid house di Manchester. Ambiamo a creare uno spazio che si collochi tra quello delle scarpe formali e di quelle sportive. Un bellissimo spazio in cui trovarsi.”
Con l’industria della moda fortemente focalizzata sullo sportswear, Clarks si trova a fronteggiare la sfida di armonizzare le necessità delle generazioni più giovani con quelli che agli occhi di molti possono sembrare modelli formali e storici. Il lavoro di Clarks – tanto con questa collezione che con le altre linee – è dunque quello di preservare un legame cross-generazionale che affonda radici profonde nelle persone e nella fidelizzazione, senza però rinunciare a un nuovo vocabolario in fatto di design. Come ricorda il DJ reggae General Saint, “Mia mamma mi comprò il primo paio di Clarks. Viveva in Inghilterra, così quando nell’estate del ‘75 venne in Giamaica la prima cosa che le chiesi di portare con sé furono delle Clarks.”
La narrazione dei contenuti è di conseguenza diventata una delle vie maestre per operare questa transizione bilanciata tra la sede del brand antica di 200 anni, che ancora conserva modelli, bozzetti e pubblicità del passato – “Un luna park per ogni designer di scarpe,” scherza Matteo – e una nuova audience globale e attenta al digitale.
"Oggi i consumatori sono molto più ‘educati’ in materia e critici rispetto al passato, quindi possono capire da sé in pochi click che cosa i prodotti hanno in comune con le scene musicali, con la politica e con l’arte. Di conseguenza, in Clarks non parliamo più dei primi rudeboy, dei mod, dei beatnik, dei contestatori parigini degli anni ‘60, dei clubber della scena acid house, o dei B-boy dei ‘90. Piuttosto, stiamo proseguendo il viaggio, costruendo un nostro universo culturale per le nuove generazioni, assicurandoci di essere ancora rilevanti sia sul mercato che nelle scene giovanili contemporanee.
Questo ethos si rispecchia nella collaborazione tra il brand britannico e Raheem Sterling, calciatore della nazionale di calcio inglese nato e cresciuto a Maverley, distretto di Kingston. “La ricca eredità culturale della Giamaica gioca un ruolo molto importante nella sua vita,” spiega Bellentani, “Queste radici sono alla base del suo amore per Clarks originals. Il tema della comunità, infatti, è spesso al centro delle discussioni che il mio team e io facciamo quando approcciamo un nuovo design.
“Per assicurarci di restituire qualcosa al posto che così tanto ci ha dato, stiamo anche lavorando con l’artista premio Grammy Koffee alla sua associazione no profit Families Rule/MTLT, che ha lo scopo di offrire strumenti ai bambini attraverso programmi di borse di studio e di formazione.”
Assieme alla ristampa del seminale libro di Al Fingers e all’uscita di un documentario con alcuni dei pesi massimi della musica giamaicana contemporanea tra cui Protoje, No-Maddz, M1llionz e Koffee, il Jamaica Pack ha saputo mettere in luce la costante influenza dell’isola nella creazione di nuove forme di narrazione dell’heritage della musica e della moda britannica.
La collezione, infatti, risulta come un testamento al ruolo che il design può avere nel costruire ponti tra storie del passato e gli scenari futuri dei giovani ribelli e di intere comunità.
Immagine di apertura: Il cantante Junior Reid indossa un paio di Clarks Wallabee accanto al sound system di King Jammy, Kingston, 1986. Foto Beth lesser / One Love Books.