In Lost, lo show che ha in qualche modo inaugurato la grande stagione delle serie tv, a essere lost, ovvero persi, non sono degli oggetti, ma i personaggi: Jack, Locke, Kate, Sawyer, Charlie e tutti gli altri (e gli Altri). Persi geograficamente, prima di tutto, e persi anche umanamente, esistenzialmente, come milioni di spettatori di tutto il mondo hanno imparato durante le sei stagioni della serie. Che debuttò nel 2004, ovvero ben prima che fossimo abituati ad avere sempre in tasca uno smartphone che ci dice dove siamo con una esattezza quasi al centimetro. Non che sarebbe servito a molto sull’isola.
La nostra idea di “dove siamo”, meno di vent’anni fa, era indubbiamente diversa rispetto che abbiamo oggi: perdersi è diventato più difficile, forse quasi impossibile. È il punto di volta del sogno moderno di mappare ogni cosa, di catalogare ogni oggetto o essere vivente sul pianeta e collocarlo in una precisa posizione sul mappamondo e oltre, come i fan di Perseverance e degli altri rover su Marte sanno bene.
Sono tutto perso nel supermercato/non posso più fare la spesa allegramente/ sono venuto qui per un'offerta speciale/una personalità garantita (The Clash, Lost in the supermarket, 1978)
Presentati ufficialmente ad aprile, degli Airtags di Apple si parlava da almeno un paio di anni. Sono delle medagliette alluminio da un lato, con il logo della mela, bianche latte dall’altro, personalizzabile con un emoji da scegliere in fase d’acquisto sullo store online; un archeologo del futuro potrebbe scambiarle per monete di Cupertino. Servono a non perdere gli oggetti, possono essere agganciate alle chiavi, lasciate nel borsello, nascoste nel sellino della bici. Il setup è facile come te lo aspetti da Cupertino; poi basta un iPhone in tasca per evocare gli oggetti come fa Harry Potter nei film. Connessi allo smartphone tramite bluetooth, la forza degli Airtags è nella rete della app Dov’è di Apple, che viene estesa da ogni iPhone, iPad o Mac: un network gigantesco, tra le cui maglie si ricollocheranno sulla mappa digitale moltissimi degli Airtags smarriti, se non tutti, con ogni singolo utente Apple che si trasforma in una sorta di antenna, un ripetitore, un rabdomante.
La tecnologia degli Airtag è utilizzata anche da altri brand, in collaborazione con Apple. Quando il marchio di bici elettriche VanMoof ha annunciato che l’avrebbe integrata nella edizione aggiornata delle sue S3 e X3, sui forum degli appassionati è scattata la discussione su come sia possibile inserire un Airtag nel sellino dei modelli vecchi (si fa per dire, sono stati lanciati l’anno scorso) in modo da poter tracciare sempre la propria bici, tra l’altro già dotata di un sofisticato sistema antifurto. Pochi avranno paura di perderla, molti che gli sia rubata. La questione ovviamente entra in una zona grigia, perché Apple non vende gli Airtag come sistema antifurto. Come del resto sconsiglia di usarli per non perdere cani, gatti o altri animali domestici: non che non possa funzionare, ma probabilmente l’azienda vuole prevenire qualsiasi responsabilità nel caso poi i pet non venissero più trovati.
L’iPhone avverte se qualcuno ti ha nascosto un Airtag nella borsetta o sotto il sedile dell’auto per stalkerarti. La privacy è un valore fondamentale per Cupertino, che per tracciare familiari – magari bambini, adolescenti o anziani – consiglia di ricorrere al suo Watch – una parola che significa sia “orologio”, sia “guardia”, nel senso di sorvegliare. Il modello SE del dispositivo non ha bisogno di essere collegato a un iPhone personale, ma si può sincronizzare con quello di un familiare che viene denominato “guardiano”. Anche Apple Park, il nuovissimo quartier generale dell’azienda, a Cupertino, è un anello che ricorda le forme del panopticon benthamiano, una architettura che simboleggia una totale trasparenza al suo interno.
Nel suo memoir del 2015 M Train, l’artista americana Patti Smith racconta di tante perdite importanti, tra cui una che lo potrebbe sembrare forse meno, quella di un cappotto donatole da un amico per il cinquantasettesimo compleanno, un indumento dotato della proprietà vagamente mistica di fare “sentire se stessa” la cantante di Horses ogni volta che lo indossava. Cappotto che durante un inverno più freddo del solito, non si trovò più. È un passaggio che cita la premio Pulitzer Kathryn Schulz in When things go missing, un fiume in piena di riflessioni su cosa significhi perdere, pubblicato sul New Yorker nel 2017. Schultz scrive che ci sono due spiegazioni riguardo al perché perdiamo le cose: quella psicanalitica, una delle fascinose favolacce di Freud, per cui sarebbe in definitiva, un successo, un “sabotaggio deliberato della nostra mente da parte dei nostri desideri subliminali”. Per la scienza, invece, perdiamo qualcosa perché non riusciamo a recuperare una memoria, o semplicemente non l’abbiamo codificata in prima istanza.
‘Vuoi che ti aiuti a trovarli?’ ‘Oh no‘, disse lei, sorridendogli. ‘Torneranno, lo fanno sempre alla fine’. (J.K. Rowling, Harry Potter e l'Ordine della Fenice, 2003)
Nella nostra società perdere qualcosa è un incubo ricorrente, anche a occhi aperti. Navigando tra siti e gruppi di discussione, il tema della perdita di oggetti, nel mondo reale o in sogno, è proporzionale ai dati sul fenomeno: ogni giorno passiamo almeno 10 minuti a cercare cose, soprattutto chiavi, occhiali e telefono, e solo nei taxi di Chicago vengono persi ogni anno circa 120mila telefoni. Lo psicologo sociale Brandon Berry, nello studio Lost! The Social Psychology of Missin Possessions, pubblicato una decina di anni fa, spiega come la perdita sia l’occasione per “una riflessione esistenziale sulla facilità del movimento nel corso della vita”, strettamente collegato a quello che la vita è, in quel particolare momento, per chi perde. Forse non paradossalmente, viene alla mente uno dei frammenti più oscuri lasciati da Frederick Nietzsche, quell’“Ho dimenticato il mio ombrello” su cui il filosofo francese Jacques Derrida costruisce un caso a partire dall’incertezza del significante – quell’ombrello è proprio un ombrello, o altro? – in coda a un suo libello del 1978 Sproni. Perso l’ombrello, perso Frederich Nietzsche, non sapremo mai cosa intendesse dire. Sempre che intendesse davvero. qualcosa.
Ci sono tre cose per cui piangiamo nel corso della nostra vita: le cose perse, quelle ritrovate e le cose magnifiche (Douglas Coupland, Ragazza in coma, 1998)
Nel suo articolo per il New Yorker, prima di addentrarsi nel delicato racconto di ciò che viene perso perché la vita in questo mondo si spezza, Kathryn Schultz – che nel 2022 pubblicherà un libro intitolato Lost & Found – sintetizza la faccenda probabilmente meglio di tanti che l’hanno preceduta: “La migliore spiegazione, la maggior parte delle volte, è semplicemente che la vita è complicata e le menti sono limitate. Perdiamo cose perché siamo difettosi; perché siamo umani; perché abbiamo cose da perdere”. E perdere è una cosa talmente umana, e siamo talmente abituati all’ineluttabile certezza che gli oggetti siano perdibili, e alla battaglia che conduciamo per non perdere quelli che per noi hanno più significato, che sembra davvero uno scenario hogswartsiano quello di un mondo in cui ogni cosa si può evocare in tempo reale, senza mai preoccuparsi di perderla. Un mondo in cui sarebbe ancora possibile perdersi e perdere, sì, ma non sulla mappa e forse neanche sull’isola di Lost. Solo altrove.