Stavamo aspettando Apple perché il 5G diventasse mainstream. L’iPhone 12 arriva in un mercato in cui l’altra faccia della medaglia, quella di Android, offre già una vasta gamma di dispositivi compatibili con il nuovo standard di rete veloce. Oramai da qualche anno infatti i maggiori marchi del settore, da Samsung e Huawei in giù, vendono versioni 5G dei loro telefoni, flagship e non solo, o addirittura hanno nuove lineup solo 5G, come per esempio sta facendo OnePlus. Si aspettava solo Apple, insomma, e sicuramente il primo iPhone 5G darà una spinta in avanti a questa tecnologia, di cui – prima delle recensioni a cascata sul nuovo telefono Apple – si è parlato soprattutto per presunti allarmi sulla salute o surreali tesi di complotti – del resto, chi non ha la memoria corta si ricorderà che succede con ogni nuova tecnologia, e soprattutto con quelle “invisibili”. È anche vero che le applicazioni pratiche nell’immediato del 5G su un telefono, a parte scaricare i wetransfer più velocemente, non reggono forse l’attesa quasi messianica che ha circondato negli ultimi anni il lancio delle nuove reti super veloci.
I migliori nuovi smartphone 5G, provati
L’autunno è la stagione calda per i telefoni. In un panorama in cui le differenze stanno sempre più nel dettaglio, alla prova i modelli più interessanti, in una classifica che si aggiorna via via che ne vengono lanciati di nuovi.
I prezzi: iPhone 12 e iPhone 12 mini a partire da 939 e 839 euro, mentre iPhone 12 Pro e iPhone 12 Pro Max a partire da 1189 e da 1289 euro.
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Prezzo ufficiale da 1329 euro.
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- Alessandro Scarano
- 18 novembre 2020
Hype del 5G a parte, cosa bolle in pentola per gli smartphone? Se ne parla di meno, ma i foldable vanno avanti (nell’articolo troverete presto la recensione del nuovo Razr 5G di Motorola). “Ogni volta che viene lanciato un nuovo design, con una nuova tecnologia, i consumatori lo percepiscono come rivoluzionario. Ma la cosa più importante è la lineup che segue, il dispositivo successivo, perché deve continuare ad attrarre i consumatori e soddisfare una migliore usabilità", ha spiegato a Domus Jun-yong Song, il designer che ha avuto un ruolo centrale nella progettazione dei dispositivi foldable di Samsung. Possiamo prevedere che finito l’effetto-wow, con i grandi lanci in successione di Motorola e Samsung, probabilmente se ne riparlerà quando anche loro diventeranno mainstream (Apple o meno). La seconda generazione, che si comincia a intravvedere, con il Fold2 di Samsung e il nuovo Motorola Razr, si presenta più matura, anche se resta poi nel circolo ristretto del numero limitato di aziende che hanno abbracciato questo particolarissimo fattore di forma nella prima ora – aggiungiamo Huawei all’elenco.
Mentre i foldable restano un sogno per il futuro, una indagine svolta da Hoda per il lancio del nuovo, solidissimo P Smart 2021 di Huawei, racconta le reali necessità degli utenti: per quasi metà degli italiani la durata della batteria è il primo criterio per la scelta dello smartphone. E dubitiamo che la situazione sia differente nel resto del mondo. Così, OnePlus e Oppo, entrambe sotto il cappello del gigante BKK Electronics, non hanno forse un foldable in catalogo, ma più prosaicamente puntano su interessanti nuove tecnologie a doppia batteria che permetteno la ricarica completa del telefono in meno di un’ora. Tornerà utile soprattutto quando finirà la pandemia, viene da pensare. Intanto però la paura di rimanere senza carica c’è e ha anche un nome, “nomofobia” – che abbrevia no-mobile, ovvero senza cellulare. Quello degli smartphone è un mondo turbolento, un universo di decine di modelli spesso simili, in cui l’aspetto innovativo non ci lascia più a bocca aperta oramai da qualche anno. È finita forse l’epoca della magia, ma le trasformazioni non finiscono. All’orizzonte, se l’intuizione rispetto al MagSafe di Apple è giusta, possiamo aspettarci un futuro di telefoni in cui dopo il jack audio sparirà anche la porta di ricarica. E sempre più realtà aumentata, grazie all’integrazione dei sensori LiDAR nelle fotocamere, che la rendono più affidabile e spalancano la via all’arrivo di occhiali smart per il mondo consumer, supportati stavolta da un ecosistema di applicazioni che gli permetta di non fare la fine dei compianti Google Glass.
Aggiunti recentemente: Huawei Mate 40, Xiaomi Mi 10T Lite, Motorola RAZR 5G.
Tutte le recensioni sono basate su sample concessi in prova dai relativi brand. Un ringraziamento agli uffici stampa e ai pr per la disponibilità.
Della nuova serie 12 dell’iPhone si è parlato soprattutto per la compatibilità con le reti 5G, una prima volta in casa Apple, i cui vantaggi forse non vedremo forse nell’immediato, per più fattori concomitanti – la scarsità di applicazioni pratiche al momento e l’assetto delle reti soprattutto – e per il nuovo packaging, con scatolette più sottili, ma senza cuffiette e caricatore all’interno, una scelta che Apple ha giustificato in base a un criterio di maggiore sostenibilità e che sui social media è stata accusata anche ferocemente di greenwashing (non usando esattamente questo termine, ma il concetto era quello). Quello che chiamiamo iPhone 12 è in realtà una serie di 4 modelli: due sono agli estremi, il mini (minuscolo) e il Pro Max, con uno schermo rispettivamente da 5,4” e 6,68”. In mezzo ci sono gli iPhone 12 e 12 Pro. Tutti hanno uno schermo Oled, tutti impiegano il FaceID come sistema di riconoscimento, tutti hanno preinstallato il nuovo iOS 14, e tutti montano il nuovo chip A14 Bionic, che li rende, in estrema sintesi, delle autentiche schegge.
Gli iPhone 12, come sapevamo già dai molti leak, hanno un’estetica che si pone in discontinuità con quanto fatto negli ultimi anni non solo da Apple, ma dalla stragrande maggioranza dei produttori di smartphone: mentre dai brand orientali ci bombardano con telefoni dalle forme affusolate, con bordi stondati e lavorazioni 3D dei vetri, Cupertino torna a bomba con un look squadrato che non si vedeva dai tempi del primo iPhone SE, e che recentemente era stato reintrodotto negli iPad Pro, come ha raccontato su Domus Andrea Nepori.
Alla prova pratica, con questo fattore di forma “revival” il telefono, seppur sempre sottilissimo, si sente di più, che stia in mano o in tasca, è come se il dispositivo avesse riacquistato una presenza e materialità a cui aveva rinunciato negli ultimi anni nel tentativo di diventare puro schermo, e dopo qualche giorno di uso si ha una sensazione quasi “saponettosa” se si riprende in mano il precedente iPhone 11, che è stondato sui lati come tutti i nuovi iPhone dal 6 a ieri. Intanto sul nuovo telefono il bilanciamento quando lo si usa è ottimo, forse migliorato, e la performatività quando per esempio c’è da scrivere un testo anche in mobilità resta probabilmente insuperabile. Una scelta convincente, insomma. Questa maggiore solidità nelle forme è inoltre ribadita dai materiali, con il nuovo Ceramic Shield che è una promessa di meno schermi rotti in caso di caduta.
L’iPhone 11 è stato il primo telefono di Apple a introdurre una modalità di scatto notturna, tra le migliori mai viste su un telefono non solo per i risultati, ma per la fluidità dell’interfaccia che la gestisce, e una lente grandangolare. Nell’iPhone 12 queste migliorie si incontrano, e ora quindi c’è la possibilità di scattare foto grandangolari in modalità notturna. L’abbiamo testata sull’iPhone 12 Pro, con risultati eccellenti, per qualità di dettagli certo, ma anche perché le foto scattate hanno le qualità tipiche della iphoneography, foto mai tirate, dove tutto è pulito e ben calibrato. A molti, più che la modalità notturna nello scatto grandangolare, in condizioni di scarsa illuminazione tornerà utile la modalità ritratto, che però scatta solo su iPhone 12 Pro e Pro Max: questi due, infatti, oltre a un po’ più di ram, hanno un sistema fotografico più raffinato di quello a due lenti di iPhone 12 e 12 mini, con l’aggiunta di un teleobbiettivo che nel caso del Pro Max raggiunge uno zoom ottico del 2.5x – contro il 2x del Pro, motivo per cui quest’ultimo modello rimane, secondo molti recensori, un po’ “in mezzo”, staccandosi troppo poco sopra al 12 base, che resta però sotto la barriera psicologica dei 1000 euro (in Italia, a partire da 939). Siamo comunque ancora molto lontani dai mirabolanti zoom ottici di molti brand orientali, ma le tecnologie messe in campo da Apple per l’ottimizzazione dell’immagine, come Deep Fusion e Smart HDR 3, restituiscono risultati sempre strabilianti. Più banalmente la correzione di certe distorsioni grandangolari su questo nuovo modello è molto apprezzabile.
L’iPhone continua poi a essere uno dei migliori telefoni in circolazione per scattare un video, anche se l’introduzione della compatibilità con Dolby Vision è stata criticata da molti recensori come un azzardo, per esempio da Roberto Pezzali su dday.it, che critica la resa sui grandi schermi.
Ma c’è una caratteristica della fotocamera della linea Pro, in comune con quella dell’iPad Pro presentato qualche mese fa, su cui conviene soffermarsi, ed è l’integrazione del sensore LiDAR, di cui si è parlato meno di quanto forse si sarebbe dovuto e che in realtà qualcuno si aspettava già sugli iPhone dell’anno scorso. Tecnologia già presente sulle auto a guida autonoma e sui droni, imparentata con il FaceID e il Kinect dell’Xbox di Microsoft (sviluppato con un’azienda, PrimeSense, non a caso poi acquisita proprio da Apple), il LiDAR permette allo smartphone di misurare le distanze nell’ambiente circostante mediante un sistema a infrarossi, costruendo così una mappa degli oggetti presenti in un ambiente. Questo risulta banalmente comodo per mettere a fuoco più velocemente, quando si usa la fotocamera per scattare una foto. Ma quando invece la usiamo come occhio dello smartphone sul mondo, ecco che il LiDAR diventa utilissimo nelle applicazioni della Realtà Aumentata, permettendo una migliore integrazione e interazione tra gli oggetti reali e virtuali nello spazio. Un passo fondamentale per la creazione di nuove e più avanzate app in AR, per creare un ecosistema fertile all’arrivo della next big thing di Cupertino, quegli occhiali smart di cui si parla sempre più insistentemente e che qualcuno si aspettava di vedere già quest’anno. In sintesi, quello di cui avevano bisogno gli sviluppatori per creare una realtà aumentata davvero affidabile. Quindi, cari sviluppatori, ora tocca a voi.
L’altra innovazione introdotta da Apple che potrebbe essere quasi più importante per i progettisti che per l’utente finale, almeno al momento, è la seconda vita di MagSafe, un nome che nasce con la tecnologia magnetica delle porte di ricarica dei MacBook, sparisce temporaneamente perché soppiantata dall’oramai quasi ubiquo standard USB-C e torna ora per designare un sistema magnetico (ma forse non troppo safe) di ricarica del telefono, che evolve quello wireless. In sintesi, al momento, è un padellino circolare che si aggancia saldamente al dorso dell’iPhone e lo ricarica, ma tra gli accessori ufficiali prossimi venturi Apple ha già mostrato una meraviglia, ovvero un sottile battery pack magnetico che dovrebbe finalmente soppiantare l’orrenda smart battery case (che speriamo sempre estinta finché riappare nei selfie di Chiara Ferragni). Potenzialmente, le declinazioni di una tecnologia del genere potranno risultare in una cornucopia di accessori, che ci permetteranno di fissare il telefono e ricaricarlo, soppiantando gli stand, con un’escursione di possibilità di applicazione che può andare dal manubrio della bici elettrica allo specchio del bagno. Senza contare che questo è probabilmente il primo passo verso la sparizione definitiva delle porte sull’iPhone. Peccato solo che per ora MagSafe ricarichi il telefono davvero lentamente. Il che diventa un problema, se si considera che gli iPhone 12, al netto di possibili “aiutini” software in arrivo, hanno una batteria che dura decisamente meno di quelli dell’anno scorso, e il 5G a livello di consumi tende a non perdonare.
Ruvidamente bello. Meravigliosamente spigoloso. Complicatamente raffinato. E si potrebbe andare avanti a lungo, cercando di inquadrare il rinato Razr di Motorola, ora anche in versione 5G, esplicitando la sensazione che si prova a usarlo. Qualcosa che probabilmente non passa attraverso le tante foto e i video che abbondano in rete per questo telefono che dal suo annuncio è diventato una sorta di cult. Perché in questo caso l’oggetto sovrasta la categoria a cui appartiene e forse anche il proprio stesso progetto. Ma andiamo per passi. Il nuovo Motorola Razr si presenta come il telefono del futuro, ma non il nostro futuro. Sembra piuttosto come immagineremmo oggi che potessero immaginare negli anni ’90 un immaginifico telefono del futuro. La scocca è una scatoletta affusolata e lucida, dalle forme taglienti, la cui superficie frontale è per buona parte occupata dal display, che si illumina quando il dispositivo viene preso in mano. È largo, pesante, affermativo, stratificato fino al punto che lo schermo interno, quello che si dispiega quando si apre il telefono, sembra appoggiato sul dispositivo, e a sua volta gli si sovrappongono le cornici, l’arcata superiore che sembra un doppio fulmine, quella inferiore spessissima. Al tatto si accarezza in continuità vetro e metallo, il tondo della fotocamera frontale con il suo flash, il sensore d’impronta sul retro. L’elemento che protegge la cerniera che tiene insieme le due metà del dispositivo, ovvero la parte più delicata di ogni smartphone foldable, è brutale, si estende quasi un filo oltre la larghezza del telefono, è una architrave, sembra il chiodo nel collo di Frankenstein nelle sue rappresentazioni più classiche. La scelta del packaging è illuminante, un’eco del più massimalista tra i Kubrick che abbiamo a memoria: un monolite nero.
Il Razr è in effetti un oggetto mostruoso nel senso iperbolico del termine, che con un linguaggio di design particolarissimo non privo di una certa dose di arroganza, fa bella mostra del suo levarsi sopra la normalità degli smartphone di oggi, della loro tendenza a scomparire dietro allo schermo, gli angoli stondati e le curve sinuose a cui ci siamo abituati e tutto il resto di quella tendenza uniformante all’immaterialità che contraddistingue oggi il design tecnologico. È un atto coraggioso, questo telefono targato Motorola, marchio storico della telefonia acquisito oramai da qualche anno da gigante cinese Lenovo. E gli si perdona forse qualche disfunzionalità, come la cornice inferiore che rende difficile la navigazione da aperto, uno schermo che oggi come oggi risulta forse un po’ stretto per chi ha mani grandi, i colori non proprio effervescenti del display rispetto a tanti altri della concorrenza, e la sensazione che quello schermo non sia in fin dei conti esattamente dritto, ma leggermente imbarcato. Eccellente, invece, a livello funzionale, lo schermetto esterno, che permette di accedere a molte funzioni base senza bisogno di aprire il telefono e offre un ampio raggio di possibili personalizzazioni. Peccato invece che il dispositivo non si possa usare anche da aperto ma piegato, come il diretto concorrente venduto da Samsung, lo Z Flip. Ma quello che manca a livello di funzionalità, il Razr lo guadagna in personalità. Un telefono di cui ci ricorderemo anche fra parecchi anni, proprio come il predecessore che portava lo stesso nome.
L’inizio del 2020 di OnePlus non era sembrato del tutto convincente. E non solo perché l’azienda nata come flagship killer aveva messo sul mercato una serie, quella di OnePlus 8, che costava poco meno dei flagship di aziende più blasonate. Si cresce e si cambia, soprattutto se dieci anni fa neanche esistevi, e un cambio di target di prezzo poteva avere anche senso; la perplessità nasceva da una lineup, con OnePlus 8 e 8 Pro, in cui si era perso molto di quel linguaggio di design estremamente minimale con cui OnePlus ci aveva sempre viziato, e che al tempo stesso rinunciava alla spinta avveniristica di un telefono come il OnePlus 7 Pro, che con la fotocamera a scomparsa e neppure il minimo notch sullo schermo aveva rappresentato nel 2019 qualcosa di un po’ diverso dalla concorrenza (anche se non era proprio l’unico a usare questa soluzione). Le cose sono migliorate con OnePlus Nord, il primo telefono midrange dell’azienda di Shenzhen, un dispositivo concreto, che non cincischiava senza rinunciare a essere divertente (vedi i filtri della fotocamera, per esempio). E convince tantissimo questo OnePlus 8T, che porta la stessa concretezza a un livello superiore di performance, senza cadere nella facile trappola dei bordi stondati, scomodissimi per molti versi, ma spesso preferiti dai produttori perché percepiti come immediatamente “belli” dai consumatori. Lo schermo è a 120 Hz, oramai una fissazione di molti brand. Poi magari Instagram scorre troppo veloce o ci sono altri problemi di interfaccia, ma la resa su video e giochi in effetti si vede.
Tre sono i punti forti di questo velocissimo OnePlus 8T. La prima è senza dubbio la ricarica iperveloce grazie a un sistema a doppia batteria, in grado di arrivare al 100% nel giro di 40 minuti. Impressionante la progressione in un quarto d’ora, fino al 58% di ricarica. Nella scatola, OnePlus fornisce un adattatore USB-C da 65W, che va bene anche per ricaricare i laptop, eventualmente (Apple, ci stai ascoltando?). Sorprendente è la fotocamera, che non è mai stata il punto forte di OnePlus – un telefono nato per un pubblico decisamente “nerd” – che modello dopo modello, anno dopo anno, ha però migliorato considerevolmente il proprio comparto foto-video, anche grazie a tanto lavoro sul software. L’8T fa delle ottime foto in condizioni di luce normale, e ha una buona modalità notturna, che si aziona automaticamente e funziona anche per i video. La distorsione ultragrandangolare è minimizzata dal software, manca invece una lente zoom. Il modulo a 4 lenti ne include una monocromatica da due megapixel, che però non raggiunge gli stessi livelli qualitativi di quella Leica dell’indimenticabile Huawei P20. C’è anche una lente macro, ma i risultati non sono proprio eccezionali. L’ultimo punto di forza è nel dna di OnePlus e riguarda l’ultimo aggiornamento della personalizzazione di Android, con OxygenOS 11 che rinnova l’interfaccia con una serie di nuove animazioni, comandi più chiari, nuove combinazioni di colori, e una serie di ottimizzazioni per usare il telefono con una sola mano. Qualche perfido dice però che ora sembra di usare un Samsung. Di certo la modalità Zen, che permette di mettere il telefono in stop, ora anche insieme agli amici (perfetto per le cene o i meeting), resta una chicca unica, insieme alla possibilità di usare lo schermo in bianco e nero per usare il telefono come ebook reader.
Un paio di doverose premesse. Il camera bump, ovvero la sporgenza del comparto fotografico sul dorso del telefono, in questo nuovo Note è davvero ingombrante, tanto da comprometterne la stabilità quando lo appoggiate su una superficie piana, come un tavolo o una scrivania. E secondo, lo schermo è davvero enorme, tanto che dovrete prenderci la mano per scriverci, per esempio – o potete usare una tastiera che si adatta allo schermo a seconda delle preferenze dell’utente come Swiftkey. D’altra parte, un display di queste dimensioni – 6.8” – è talmente fuori scala da pensare di ritirare fuori dai ripostigli la denominazione di phablet, come ha fatto notare Dieter Bohn nella sua recensione su The Verge, ottimo per leggere un ebook (se lasci a casa il lettore), guardare un film in treno o giocare, soprattutto grazie alla compatibilità con la versione cloud di Xbox Game Pass, che permette di giocare in streaming a una serie di titoli per console anche se la console non ce l’hai. Ma non solo Xbox: l’integrazione in generale con Microsoft e soprattutto con il pacchetto Office è un altro elemento che dà a questo dispositivo una marcia in più, rendendolo uno dei migliori smartphone sul mercato. Un Samsung Galaxy Note S20 raffinato e migliorato, e con il pennino. Ah già, il pennino.
Da anni, il Galaxy Note è un telefono unico nel suo genere, grazie alla presenza di uno stilo incorporato. All’inizio, il vantaggio era semplicemente averlo lì e potere interagire in un modo diverso con lo schermo. Via via, negli anni, il pennino è diventato parte sempre più integrato nell’interfaccia e oggi non solo permette di scrivere un appunto al volo o fare uno schizzo, ma anche di sketchare in realtà aumentata, fare un appunto su uno screenshot o sul calendario, selezionare una porzione di testo da tradurre, farti un selfie o gestire la navigazione senza toccare il telefono – una possibilità quest’ultima forse un po’ inutile, se non per fare scena con gli amici. La potenza della S Pen sul Galaxy Note20 Ultra 5G corrisponde all’investimento che Samsung ha fatto nella sua applicazione Notes, integrando negli anni. sempre nuove funzioni che rendono il Note il perfetto blocchetto d’appunti per l’era digitale, soprattutto finché Apple non si deciderà a portare sugli iPhone la compatibilità con la Pencil. Grazie alla S Pen su Samsung Notes è possibile scrivere usando lo schermo in obliquo e poi raddrizzarlo, trasformare la scrittura a mano libera in formato testo, inserire e modificare immagini, integrare registrazioni audio e molto alto. E grazie all’integrazione con Office, tutte le note possono essere sincronizzate con OneNote, l’amata-odiata applicazione di Microsoft per le note. Un unico appunto: in un dispositivo così “pieno” di tecnologia, l’unico punto in cui il team di sviluppo di Samsung ha trovato alloggio per lo stilo è in basso, a sinistra. Forse sarà contento qualche mancino, purtroppo sarà un incentivo per chi considera il Note un grande telefono, non solo per dimensioni, anche senza bisogno di usare il pennino.
Se si parla di 5G non si può certo ignorare che Reno di Oppo è stato uno dei primi telefoni a portare la connessione alla rete ultra veloce qui in Europa. E con questa quarta versione del telefono, Oppo mette sul mercato uno degli smartphone 5G più sottili e leggeri. E oggettivamente, belli. Per quanto possa essere bello uno smartphone, si intende. Ma la tecnica proprietaria a incisione a diamante utilizzata per realizzare il retro di Oppo Reno4 Pro fa veramente la differenza. Il dorso del dispositivo infatti offre al tatto una sensazione “setosa”, come la definisce Oppo, mentre la particolare lavorazione impedisce che sulla superficie restino impronte. È un vero peccato, però, che dall’altra parte lo schermo si accenda su una interfaccia – la personalizzazione ColorOS di Oppo – che è ancora la vecchia versione 7.2 e non la nuova, recentemente presentata, con cui il produttore cinese si trascinerà finalmente fuori da un guazzabuglio grafico spesso non entusiasmante, soprattutto a occhi occidentali. Tornando al dorso, sul mercato si trovano una incredibile colorazione blu “galattico”, forse non per tutti ma davvero bella, e una più moderata nera, impreziosita da un pattern di loghi Oppo che piacerà... beh, a quelli a cui piacciono i loghi, a guardare la moda degli ultimi anni, quindi, un sacco di gente. In arrivo anche un verde “glitter” con il bollino di qualità che arriva direttamente da Pantone. Molto buona la fotocamera, che sfrutta al meglio le tre lenti, senza che ci siano particolari aspetti innovativi. Ma è solida e fa il suo. È capace invece di cambiare veramente le abitudini la nuova ricarica ultraveloce, che permette di passare da zero a cento in una mezzora. Non sarà una Tesla, ma ci stiamo arrivando.
Insieme al Reno 4, arriva gradualmente in Europa anche l’orologio di Oppo, già sugli scaffali del mercato asiatico. Telaio di alluminio, ceramica, vetro e – perché no? – plastica sono i materiali impiegati dall’azienda cinese per il suo primo smartwatch, che con il suo formato rettangolare ricorda parecchio quello di Apple. Non c’è la digital crown, ma due tasti laterali, di cui uno personalizzabile. Il punto forte del dispositivo, che risulta solido nell’uso e veloce il giusto, è sicuramente lo splendido display Amoled, flessibile e con doppia curvatura, e in generale il fatto che si presenta come un orologio bello, non troppo “da geek”. Anche l’interfaccia è un buon compromesso tra utilizzabilità e piacevolezza estetica. Tra i punti deboli, invece, il cinturino di plastica disponibile in diversi colori– non comodissimo e neanche troppo sicuro nella chiusura, e diciamolo, troppo brutto rispetto al quadrante – e, purtroppo, il sistema operativo. Wear OS, che poi è la versione di Android per i dispositivi indossabili, seppur versatile, è lontano anni luce dai livelli di quello di Apple Watch. Il comparto di sensori lo rende buono anche per il fitness, con svariate modalità di allenamento integrate, tra cui anche il nuoto grazie all’impermeabilizzazione; c’è anche la monitorizzazione del sonno. La qualità fondamentale dell’Oppo Watch è quella di funzionare bene e presentarsi bene, versatilità d’uso sempre al polso grazie a una batteria che dura tranquillamente un giorno e anche di più e a cui bastano 15 minuti di ricarica. E c’è anche l’opzione che crea un quadrante in base a come sei vestito.
Nella variegata e sempre più affollata tribù dei telefoni 5G, questo Xiaomi ha un ruolo particolare: è il più economico di tutti, con i suoi 239 euro di prezzo. E sono 239 euro spesi bene: grazie al nuovissimo processore Snapdragon 750G, il telefono risulta assolutamente reattivo; lo schermo è grande, con una diagonale di 6,67”, anche se probabilmente il pannello LCD è l’unico punto vero punto debole di questo telefono; la fotocamera è un po’ lenta sull’autofocus, ma gli scatti sono nitidi e puliti, con buoni colori, e Xiaomi fa tutto il possibile per arricchire l’esperienza fotografica con una serie di opzioni ed effetti piuttosto divertenti, come quella che clona un soggetto più volte all’interno di un singolo scatto. Bene anche la nuova MIUI 12, e sappiamo quanto l’interfaccia sia spesso il tallone d’Achille degli Android che arrivano dalla Cina. Integrare su un telefono di questo genere il 5G significa sottolineare quanto la sia interessante e variegata la fascia media del mercato degli smartphone, un contesto dove si vedono spesso soluzioni e sperimentazioni da fare invidia ai flagship. Esteticamente sarebbe un telefono “normale”, non fosse per la fotocamera sul dorso disposta in un modulo circolare, che non si può non notare. Da 239 euro.
È una sensazione quasi paradossale quella che si prova impugnando il nuovo flagship di Huawei. Da un lato c’è il piacere suscitato da uno dei dispositivi più belli usciti quest’anno. Il display è ampio e largo, i bordi stondati offrono una buona impugnatura senza pregiudicare troppo la funzionalità. La colorazione Mystic Silver è un grigio lattiginoso e dai toni formali che però poi colora il dorso con una fetta di arcobaleno quando il telefono è esposto alla luce. Il nuovo comparto fotocamera circolare, ispirato dice Huawei a un buco nero, è elegante e ben proporzionato, e se giri il telefono a testa in giù lo fa quasi sembrare un vecchio iPod. Inoltre, è un telefono più sostenibile, con il 90% in meno di carta e il 28% in meno di plastica nel packaging, una mossa con cui Huawei afferma un ruolo da protagonista nell’attualissima narrazione sulla sostenibilità degli smartphone.
Dall’altra parte, però, non si può non avvertire una certa nostalgia. C’è stato un periodo, nella seconda metà dello scorso decennio, prima che arrivasse il ban dell’amministrazione Trump, in cui ogni lancio di un nuovo flagship Huawei spingeva un po’ più avanti l’idea di quello che si poteva fare con uno smartphone. Il colosso cinese, nella sua scalata nel mercato dei cellulari, che l’ha portato sul trono nel giro di pochi anni, ha puntato tantissimo su due aspetti, soprattutto: la batteria, sia per durata, sia per velocità di ricarica. E la fotocamera, sui modelli di alta gamma in partnership con Leica, pompata a colpi di machine learning e capace, per molti anni, di scatti notturni impossibili per la concorrenza, anche se questa era Apple o Samsung. Una qualità, quella fotografica, che si mantiene anche nel nuovo Mate 40 Pro, con quell’estrema nitidezza degli scatti che è una sorta di marchio di fabbrica Huawei/Leica, con una lente ultragrandangolare che fa faville e un risultato finale, soprattutto se vi piace quel tono un po’ HDR, che resta un punto di riferimento. Lo smartphone è estremamente performante, grazie al nuovo processore “fatto in casa” Kirin 9000 e del resto il Mate è sempre stato il telefono con cui in autunno Huawei lanciava ufficialmente il suo processore top di gamma.
Insomma, siamo davanti a un telefono tra i migliori di questa fine 2020. O meglio, che lo sarebbe, se non ci fosse appunto il famoso divieto del dipartimento del commercio americano, in conseguenza del quale Huawei può installare il sistema operativo Android sui suoi telefoni, ma senza i servizi Google. Paradossalmente, dunque, l’esperienza del Mate 40 Pro in Occidente è molto simile a quella in Cina, dove a sua volta è vietato Google. Un problema grosso però per tutti i mercati lontano da Pechino, a cui Huawei ha cercato di sopperire con un proprio sistema di servizi e soprattutto con un proprio store per applicazioni, che resta il vero punto debole di non avere Google a bordo: la mancanza dell’infinita scelta di app del Play Store si fa ovviamente sentire. La risposta del colosso cinese è App Gallery, uno store che oggi è il terzo al mondo, all’interno del quale continuano a venire integrate nuove applicazioni, guardando sia al mercato globale, sia a quello locale, per esempio in Italia con Helbiz, UCI Cinema e altre. Al momento sono circa 96mila le applicazioni presenti. Un grande sforzo che comincia ad avere un senso anche per l’utente finale. Poi, ovviamente, gli utenti più smaliziati sanno che ci sono molti modi per installare applicazioni su Android e se vuoi anche Google Maps. Ma questa è un’altra storia. Da 1249 euro.