C’è un tratto distintivo nella maggior parte dei grandi nuovi horror degli anni Dieci: si svolgono in casa. La casa è il luogo della paura, delle minacce, della violenza e delle invasioni, demoniache e non. Non è stato un caso, ma una scelta precisa di una società di produzione in particolare, che ha poi influenzato tutte le altre. E oggi, anche se è il folk horror a dominare, continuiamo a vedere case su case come ambientazione principale dei film di paura. L’ultima è quella di Heretic in cui Hugh Grant chiude due ragazze che sono venute a convertirlo alla causa mormona e lo porta sempre più in giù nel suo scantinato.

Non che prima non ci fossero film dell’orrore casalinghi (basti pensare a Shining, Poltergeist o al seminale Gli invasati del 1963), ma a partire da Paranormal Activity si è cambiato paradigma architettonico. In passato, i film dell’orrore ambientati dentro le case o per lo più in interni usavano quegli arredi o quelle architetture per generare paura. C’era, insomma, una ragione precisa. Spesso erano magioni gotiche, che ben si prestavano a spaventare, oppure grandissimi luoghi disabitati, pieni di demoni. Se si trattava di case ordinarie, il male aveva un legame con gli oggetti di consumo (come accade in Poltergeist con il televisore). Da Paranormal Activity (2007) in poi, invece, le case diventano di ogni tipo: normali, comuni o originali, ipermoderne o tradizionali, appartamenti o villette. Lo stile non importa più. Non hanno caratteristiche spaventose di per sé; ciò che conta è che siano ambienti chiusi e ben delimitati.
La casa di Paranormal Activity ha cambiato tutto
La ragione per cui Paranormal Activity è stato così influente risiede soprattutto nel suo successo: costato quasi niente, ha incassato moltissimo con la storia di una coppia le cui notti sono infestate da un demone, sempre più presente, che finisce per possedere una dei due protagonisti. La novità stava nel fatto che le scene notturne di paura erano mostrate attraverso i video di sorveglianza. Uno dei personaggi installa videocamere a infrarossi per capire cosa accade di notte (di giorno vede solo le conseguenze, ma non sa spiegarle), e pian piano le registrazioni mostrano movimenti inspiegabili e piccole variazioni dal normale, capaci di terrorizzare. Si pensava che la rivoluzione fosse nell’uso delle immagini di sorveglianza, ma in realtà la parte più influente era il fatto che i personaggi rimanessero sempre confinati in casa.
Le case non hanno caratteristiche spaventose di per sé; ciò che conta è che siano ambienti chiusi e ben delimitati.

Quel film fu prodotto da Jason Blum, giovane produttore con pochi soldi (il film costava pochissimo), che grazie a quel successo ebbe la possibilità di fare il salto di qualità. Blum si inventò un modello produttivo: spendere pochissimo, fare film con nuovi registi, immaginare storie che non costassero molto e puntare a grandi incassi, come era successo con Paranormal Activity. Sembra un’idea semplice e irrealizzabile, e invece gli riesce: mette a punto un modello di business dai costi incredibilmente bassi, così che qualsiasi esito risulti un successo. Questo permette di sperimentare e, ogni tanto, di ottenere incassi straordinari. Una delle idee di risparmio era girare sempre in interni. Nascono così gli horror Blumhouse, dalla sua società di produzione, che la casa ce l’ha già nel nome.
Cosa accade nelle case dei film Blumhouse
Insidious, Sinister, Dark Skies, La notte del giudizio, Oculus, Ouija, Unfriended (girato tutto in videoconferenza, ma i personaggi sono ognuno nelle proprie case) e Martyrs sono tutti esempi di film horror Blumhouse ambientati in casa. A questi si possono aggiungere L’evocazione e The Babadook, che non sono Blumhouse ma si sono adeguati allo stesso modello. Perfino The Visit, sempre Blumhouse, diretto da un regista di grande richiamo come M. Night Shyamalan, è ambientato in una casa. Anche l’esordio di Jordan Peele, Get Out, si svolge in un’abitazione. Al di sotto di questi titoli, c’è un oceano di altri horror casalinghi, di minore successo e riuscita.

Se gli anni Dieci sono stati quelli dell’horror, e ancora oggi questo è il genere dominante (seppur nella sua versione folk), è grazie a questi film che hanno creato un nuovo interesse e alimentato un nuovo pubblico. Nei film Blumhouse c’è un vero campionario di case e abitazioni. In The Visit, tutta la tensione nasce dal fatto che due nipoti sono in vacanza dai nonni, ma è la prima volta che li incontrano. Quella casetta così vecchia, in campagna, piena di scricchiolii, nasconde insidie da favola (in uno dei momenti più tesi, la nonna chiede alla nipote di entrare in un ampio forno per controllare qualcosa). In Get Out è una casa di bianchi liberal, in Noi (altro film di Peele) è modernissima. In La notte del giudizio è una casa-fortezza, attrezzata per resistere alle invasioni, mentre in Sinister, Dark Skies e Insidious è una casa normalissima.
La casa è la mente dei personaggi
Questi film non sfruttano più le sensazioni che attribuiamo all’architettura gotica, ma trasformano ciò che è normale e ordinario in straordinario e spaventoso. Non si appoggiano mai ai luoghi comuni della paura, ma li creano ogni volta. In parole povere, non portano il pubblico in un altro mondo fatto di stanze gotiche e torrette terrificanti, ma fanno entrare l’orrore nel mondo degli spettatori, in case simili alle loro. La Blumhouse ha portato il suo remake de L’uomo invisibile e quello di Wolf Man in una casa, trovando ogni volta una maniera per rinnovare questi classici.
La casa diventa un luogo di terrore proprio perché è un ambiente familiare e sicuro, ma che viene invaso.

In questi film, la casa è sempre una metafora della mente. Gli scantinati rappresentano l’inconscio, la soffitta i ricordi. Le camere da letto sono la parte più fragile della psiche, quella che può abbattere un personaggio; la cucina rappresenta l’istinto, mentre il salotto è la parte sociale. I film Blumhouse, pur con tutte le eccezioni del caso, quando lavorano solo d’interni trovano molte maniere per differenziare ogni stanza, creando un vero e proprio panorama urbano all’interno di una casa, in cui ogni ambiente ha una funzione diversa. Muoversi tra di essi è come spostarsi in un centro abitato. E le poltrone sono sempre ampie e confortevoli: ci si può sprofondare nel senso peggiore del termine, come accade al protagonista di Get Out, ipnotizzato, o ai personaggi di Insidious, che viaggiano in un’altra dimensione sempre rimanendo in casa.

La nuova paura
Nel complesso, questi dieci (e più) anni di film horror casalinghi americani hanno raccontato in maniera impeccabile le nuove paure legate alla sicurezza e all’invasione. Mentre governi, destre e complottisti soffiavano sulla diffidenza nei confronti degli altri (immigrati, ma anche altri Paesi e organizzazioni sovranazionali come la Nato o l’Unione Europea), e mentre il terrorismo — spesso interno — diffondeva la paura che le parti distruttive della società
fossero già tra noi, questi film raccontavano di persone che trovano le peggiori paure nelle loro case. È il terrore che ti viene a prendere dove stai, non quello che vai a cercare. È la paura più diffusa nella società contemporanea: che i nemici sociali siano già entrati in casa.

Tutto questo, ovviamente, non è nella mente di chi quei film li realizza. Non c’è un’intenzione dietro se non quella di fare soldi e cavalcare un trend che funziona e costa poco. Ma è ciò che accade. La rappresentazione delle paure sociali è il risultato di queste azioni, ed è uno dei segreti del loro successo: funziona perché racconta qualcosa che il pubblico avverte intorno a sé.

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