Minster Court è il complesso di edifici progettato da Gollins, Melvin and Ward Partnership e frutto di un eccesso di zelo fiabesco degli anni ’80 che oggi spicca come un improbabile castello tra il neogotico e il post-moderno nella City di Londra.
L’esplosione di increspature in marmo e granito rosa in facciata e di tetti marcatamente spioventi ha conquistato all’immobile l’appellativo di “Monster Court” o di “Castello di Dracula” e ne ha garantito l’ingresso nel mondo nel cinema nella versione cinematografica del 1996 de “La Carica dei 101”, come location del quartier generale di Crudelia De Mon (chi non l’ha preferita all’irreprensibile Anita?).
Ma la realtà ridisegna la fantasia e il puntuto edificio sta per perdere gli aculei e ravvedersi dalla sua indole malvagia. A guidare l’operazione è il suo proprietario M&G Real Estate, in procinto di intraprendere un’operazione che, senza demolirlo, farà un lifting al fabbricato rendendolo completamente irriconoscibile.
Il progetto riguarda due dei tre edifici che insistono sull’area (Minster 1 a nord-est del sito e Minster 2 sul confine est dell’area) e la piazza che li raccorda mentre il terzo edificio (Minster 3) per il momento rimane invariato. L’intervento prevede la riqualificazione degli spazi pubblici con una nuova piazza alberata dotata di servizi, bar e ristoranti, il recupero degli interrati ad uso di spazi culturali, il ridisegno dei percorsi di accesso, degli atrii e della segnaletica. Gli interni saranno riconfigurati come uffici di pregio con servizi (tra cui ristoranti, un auditorium e un centro benessere) mentre gli esterni saranno integralmente rivisitati, con l’aggiunta di un sopralzo con coperture in rame, terrazze panoramiche e l’eliminazione delle protuberanze di facciata. Il tutto all’insegna di un importante adeguamento impiantistico funzionale a garantire la massima sostenibilità ambientale.
Se la riflessione estetica sul “buono” e sul “cattivo” gusto non è nuova al pensiero contemporaneo (cfr. Gillo Dorfles, “Antologia del cattivo gusto”, 1968), resta il dubbio sulla legittimità di un’operazione trasformativa così consistente, forse altrettanto velleitaria di quella da cui è scaturita l’opera originaria.