Nel marzo 1965 Bob Dylan faceva il suo ingresso sul palco del Newport Folk Festival indossando, per la prima volta in pubblico, una giacca di pelle nera e un paio di occhiali da sole. Tempo pochi minuti e quello che all’epoca era considerato l’enfant prodige del folk statunitense avrebbe cambiato per sempre il suo destino, collegando per prima volta la chitarra all’amplificatore e venendo subissato di fischi dal pubblico conservatore, o meglio integralista, del festival. Dalla svolta elettrica di Dylan la musica occidentale non è più stata la stessa.
“Conserviamo quella giacca di pelle, e anche una cartolina di Pete Seeger [figura di spicco del folk a stelle e strisce] che invocava un’ascia per tagliare il cavo”. Così racconta Alan Maskin, supervisore della nascita e dell’allestimento del nuovo Bob Dylan Centre a Tulsa, Oklahoma.
La proposta di Maskin, a capo dello storico studio di architettura e design Olson Kundig, ha avuto la meglio tra un centinaio di progetti internazionali per l'allestimento di un centro dedicato a conservare lo sterminato archivio di Bob Dylan.
Una collezione di oltre 100.000 documenti tra carte, manoscritti, fotografie, oggetti, abiti e nastri che sei anni fa è stata acquisita dalla George Kaiser Family Foundation, per un valore oggi stimato sui 20 milioni di dollari. L’iniziativa fa parte dell’America Song Archives, un progetto che include anche l’archivio di Woody Guthrie – il cui centro dedicato sorge dal 2013 a poca distanza – ha arricchito il vibrante distretto artistico di Tulsa di due luoghi fondamentali per lo studio della musica folk e della cultura pop statunitense.
Ad accogliere la collezione – tuttora in parte inedita, come racconta Maskin – è una cartiera vecchia di un secolo, sui cui mattoni oggi spicca un murale riproducente la silhouette di Dylan catturata in un raro scatto del 1965 dal fotografo Jerry Schatzberg.
Il coinvolgimento di diversi creativi e personalità provenienti da molteplici settori è al cuore della curatela che assume una dimensione corale e modulare, dove l’archivio in continuo aggiornamento dialoga con mostre temporanee su temi specifici. Una di queste, si auspica Maskin, potrebbe essere dedicata al guardaroba dell’artista – fondamentale per comprenderne l’evoluzione.
“Non volevamo erigere un monumento a una rock star, ma usare lo spazio per raccontare la storia della sua traiettoria creativa, così che potesse ispirare altre persone. Nel film I’m Not There, Todd Haynes ha usato sei diversi personaggi di diversa etnia, sesso e età per raccontare Dylan. Allo stesso modo noi abbiamo voluto usare molteplici prospettive.”
Tra queste c’è quella di Elvis Costello che ha curato la selezione del juke-box con 152 canzoni che oltre a appartenere alla produzione del cantautore, provengono dalla discografia di musicisti che lo hanno ispirato o di cui è stato maestro. Analogamente, il centro ospita una biblioteca con testi di cui Dylan ha nutrito la sua penna.
L’interattività è senza dubbio uno degli elementi che unisce l’impostazione museale dell’edificio con le sue necessità archivistiche. Lo spazio, spiega Maskin, è stato pensato per tre tipi di visitatori: “gli skimmer, gli swimmer e i diver”. Questi ultimi, i fan più incalliti di Dylan spendono solitamente anche oltre le quattro ore nel centro e, tramite schermi touch screen, possono immergersi a fondo nelle oltre 90 vetrine espositive contenenti le più disparata oggettistica accumulata negli anni dal musicista. A queste si aggiungono proiezioni video e la riproduzione di un ambiente di studio in cui lo spettatore può meglio comprendere l’approccio del musicista alla registrazione.
Interrogato se Dylan fosse più un collezionista o un accumulatore, Maskin risponde che non si sa davvero per quale ragione il cantautore abbia continuato a riempire scatole di carte e oggetti per decenni, senza mai parlarne con nessuno. Al punto che aprirne l’archivio è stato come immergersi in una capsula temporale.
“C’è un sacco contenente le lettere scritte fan durante l’anno del suo incidente in motocicletta (1966, ndr). Molta corrispondenza non era mai stata aperta. Abbiamo trovato una lettera di un soldato americano che gli scriveva dal Vietnam, raccontando di come i suoi amici fossero stati uccisi in battaglia e delle sensazioni che le sue canzoni gli trasmettevano." Secondo Maskin sono documenti come questi che consentono di comprendere a fondo l’impatto che un artista ha avuto sulla cultura del suo tempo.
D’altronde, sebbene Dylan sia soprattutto ricordato come cantautore, commenta Maskin, l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura e le sue attività parallele come pittore e regista sono prova della sua più ampia influenza nel mondo dell’arte. “Dylan fa quattro tour l’anno e nel mentre dipinge fino a 100 tele e lavora i metalli. Credo che per i creativi non rappresenti solamente un performer. È stato un’ispirazione per così tante persone nelle discipline artistiche attraverso molteplici decadi, come nel caso del gruppo Memphis.” Fu infatti la sua Stuck inside a mobile with the Memphis blues again ad ispirare Ettore Sottsass Jr. nel battezzare la dirompente corrente di design milanese degli anni ‘80.
Inaugurato da poche settimane, il Bob Dylan Centre promette di stupire i fan del cantautore per gli anni a venire, come già anticipato dalla recente riscoperta dell’inedita prima registrazione del suo classico Don’t think twice it’s all right che l’archivio ha reso disponibile in download.
L’equilibrio tra interattività e musealità sembra dunque imporsi oggi come la soluzione maggiormente perseguita per presentare gli archivi – tradizionalmente poco glamour e occultati – agli occhi di un pubblico anche generalista.
Immagine in apertura: Bob Dylan Center. Foto Matthew Millman