Thierry Mugler è morto nella giornata di ieri 23 gennaio 2021 all’età di 73 anni a Parigi.
Erano stati proprio i caffè della capitale francese a offrire al giovane Mugler l’ispirazione per Cafe de Paris, la prima collezione creata nel 1973 a soli venticinque anni, trampolino di lancio per quel successo che verrà nel decennio a seguire. Sono questi gli anni in cui la moda e le arti guardano con rarefatta nostalgia agli anni ‘30 e ‘40, in cui Vittorio Gassman veste un abito candido da gagà D’annunziano nel capolavoro di Dino Risi Profumo di Donna, e in cui Fellini, premio Oscar con Amarcord, tiene a ricordarci che la nostalgia, estetizzante e priva di giudizi morali di sorta, è l’unica ancora di sopravvivenza al presente.
Ecco che Mugler negli anni a seguire farà in un certo modo sua questa lezione, dando vita alle sue visioni fatte di cowgirl e cosmonaute futuriste, di automobili Buick e motociclette da America dei drive-in e degli Hell’s Angels, ma anche di un’iconografia mitologica tra sirene, ninfe, divinità cristiane e pagane trasformate in muse apocrife.
Il tutto modulato su forme esagerate, teatrali, autoironiche e seducenti – camp, per riassumere – le cui radici affondano nell’underground fatto di locali drag e controcultura fetish e queer che tra i ‘70 e gli ‘80 si rende responsabile di un nuovo immaginario che lo stilista prenderà per mano, contribuendo alla sua affermazione, autorevole e mai macchiettistica, sulle più celebri passerelle. Mugler è, infatti, tra i primi a fare sfilare modelle trans.
“Couturissime” è il nome della mostra che nel 2019 il Musée des Arts Décorarifs di Parigi aveva dedicato allo stilista. In quel titolo, un superlativo, è racchiuso tutto il lessico iperbolico di Mugler.
Le enormi spalline e tese dei cappelli in netta opposizione a girovita striminziti, da pin-up. Il corsetto – oggi ritornato prepotentemente in quella moda bulimica a cavallo tra metaverso e strada di cui TikTok è demiurgo – diventa così uno dei marchi di fabbrica di Mugler, che a sua volta lo trasforma in opera d’arte collaborando, a partire dalla collezione primavera-estate 1989, con lo scultore Jean-Jacques Urcun. Il corsetto come corazza, come armatura scintillante di una femme fatale per l'epoca post-moderna.
Corsetti, come quello celebre che riproduce la scocca cromata di una motocicletta con tanto di specchietti applicati e aggettanti, indossato nel 1992 da Emma Sjöberg sul set del video di Too Funky di George Michael, che l’ex Wham dirige a quattro mani con lo stilista francese.
Al servizio di queste visioni e dei loro personaggi c’è poi la gomma. Quel latex che prima circolava su testate di nicchia da nascondersi sotto il letto e far circolare tra adepti del BDSM come AtomAge dello stilista britannico John Sutcliffe, con Mugler si impone nell’haute couture. Proprio sull’applicazione di questo materiale nella moda di metà Ottanta si interroga Domus 663, sulle cui pagine Mugler, intervistato, ci illustra che “è principalmente una scelta estetica e meno di comodità”.
Dopotutto corsetti, latex e spalline sono tutti strumenti utili a modellare e (de)formare corpi, i cui volumi estremi tanto stimolavano la curiosità di Mugler. Lui stesso, amante del bodybuilding, aveva così forgiato il suo. Nel 2019, sebbene poco incline alla mondanità, lo stilista aveva posato nudo per Interview Magazine, raccontando il suo rapporto con chirurgia plastica e culturismo, dichiarando che “è importante per le persone raggiungere il loro pieno potenziale. Sono sempre stato affascinato dal corpo umano, così ho voluto omaggiare ciò che può fare”.
Dopo il successo della sua fragranza Angel nei Novanta e dopo la collezione d’addio per Thierry Mugler del 2001, negli ultimi vent’anni lo stilista si era dedicato a scenografie e costumi, evoluzione necessaria del suo percorso. Non aveva però smesso di giocare con la seduzione, aggiornando la sintassi del suo linguaggio alla sensibilità del nuovo showbiz, vestendo così Lady Gaga, naturale erede delle sue visioni, ma anche Cardi B, Kim Kardashian e i loro corpi procaci e esagerati. La sua eredità, dunque, torreggia ancora attualissima, come dimostrato da certe creazioni di Schiaparelli o dall’immaginario creato da Charles Jeffrey per il suo brand Loverboy.
“Ho disegnato i miei vestiti per creare un mondo che non esisteva,” dirà Mugler, senza il quale oggi il nostro immaginario collettivo sarebbe privo di certi suoi pilastri iconografici o, comunque, molto meno peccaminoso.
Immagine di apertura: View of the exhibition Thierry Mugler: Couturissime. Montreal Museum of Fine Arts. Foto © Marc Cramer