Maschere per cambiare volto, gadget strabilianti, rifugi con accesso segreto, eleganti ville mid-century, gioielli, auto di lusso, ma anche brivido e fascino magnetico. Un immaginario che da quasi sessant’anni dona un appeal senza tempo al Re del Terrore, personaggio nato dalla mente della milanese Angela Giussani nel 1962 e impostosi come uno dei fumetti italiani più longevi e di maggior successo.
Uno status di culto che rende attesissimo il film dedicatogli dai Manetti Bros, già a loro agio con la nostalgia per il cinema di genere italiano, dal poliziesco partenopeo (Song’e Napule, 2013) all’horror-sexploitation (Zora La Vampira, 2000).
Il capolavoro di design di Mario Bava
Più che i soli natali, però, a rendere Diabolik un’icona tutta italiana è anche il suo (quasi totale) anonimato all’estero, se non fosse per la sua prima trasposizione cinematografica del 1968 ad opera di Mario Bava. Una pellicola in cui il Re del Terrore si fa Re del Design, tra interni, costumi e scenografie ultrapop che sfiorano il visionario.
Un film che nasce in una stagione di fitto dialogo tra il mondo dei fumetti e quello del cinema, con l’Arte Pop a fare da denominatore comune. Se già nel 1963, in 8 1/2, Federico Fellini sostituiva le onomatopee da comic alle parole sul copione di Marcello Mastroianni, è la Barbarella di Roger Vadim del 1966, a sancire il successo dei fumetti sul grande schermo. Tra sceneggiature rivedibili e erotismo caleidoscopico sono soprattutto scenografie e costumi (Paco Rabanne) a lasciare un’impronta, premiando la tenacia del produttore Dino De Laurentiis nel recuperare dalla pattumiera un’idea che la moglie aveva scartato, liquidando con sdegno i fumetti a prodotto troppo basso per la settima arte.
Danger: Diabolik di Bava nasce dalla volontà del produttore napoletano di ricalcare il successo di Barbarella con un fumetto made in Italy, contribuendo a esportare nel mondo la creazione delle sorelle Giussani. Il risultato? Un tripudio orgiastico, ma non per questo meno raffinato, di design plastico e costumi dal tiro futuristico. La tuta nera di Diabolik diventa perfetta per il gusto diffuso per il PVC tanto nella moda underground che nell’arredamento per interni. Addirittura, in piena sbronza Space Age, viene riproposta, assieme alla sua Jaguar E-Type, anche in versione bianca e argento da spedizione lunare – liberandosi di quel timore reverenziale verso le icone che spesso castra la creatività. Ci sono poi gli interni, il vero coup de theatre di Bava.
Un paese dove, secondo Eva Kant, “il furto diviene soltanto un’inutile provocazione” e dove Diabolik “non avrebbe più ragione d’esistere”.
Più volte John Phillip Law, che nella pellicola interpretò Diabolik, ha ricordato come una volta giunto sul set non ci fosse traccia delle scenografie visibili nel film. Una volta appoggiato l’occhio dietro l’obiettivo della cinepresa, però essi si materializzavano. Era la straordinaria abilità del regista nel dilatare, mediante inquadrature, filtri e sovrapposizione di fotogrammi, gli spazi, sfruttando i budget risicati per creare una visione illusoria – come il cinema d’altronde – degli ambienti totali alla Verner Panton.
Bava si fa interprete di una nuova spazialità nel cinema. Le sue velleità giovanili di pittore ritornano, e come un architetto suddivide la scena in più parti, utilizzando fotografie, tromp l’oeil e modellini per ricreare le prospettive cinematiche proprie del fumetto, ma anche ambienti avvolgenti tipici dell’architettura dei Sessanta.
Lo Space Age design a fumetti
Sotto l’art direction di Flavio Mogherini (già al fianco di Fellini), Ennio Michettoni crea modellini d’interni in stile Op Art che guardano alle creazioni di Nanda Vigo e Joe Colombo, nate dall’incontro tra forme geometriche in plastica bianca, superfici cronotopiche e dettagli in acciaio. Gli interni del rifugio di Diabolik, in cui la roccia naturale fa da guscio a strumentazioni futuristiche, riportano a quelli pensati negli stessi anni dal team della serie di marionette animate Thunderbirds o viste nei film di spionaggio da budget, però, Hollywoodiani. Ne è contraltare, morale e estetico, l’ufficio dell’ispettore Ginko, sobrio ma impeccabile con la sua lampada Arco di Castiglioni e dipinti modernisti alle pareti.
Ai costumi, Luisa Marinucci e Giulio Coltellacci ripropongono la loro esperienza sul set de La Decima Vittima, (1966) con abiti ora dalle forme nette e geometriche, ora sensuali e see-through in un gioco di vinile, plastica colorata e superfici paillettate che strizzano l’occhio tanto a André Courrèges quanto a Paco Rabanne. Ai gioielli, invece, Nino Lembo, un veterano della recitazione reinventatosi come designer di accessori per l'industria cinematografica e televisiva, che riporta nella finzione del set i bottini dei fumetti.
Se si parla di eleganza italiana, impossibile non citare le musiche oniriche di Ennio Morricone, accompagnato alle chitarre da Chetro & Co., duo psichedelico che negli stessi anni collabora addirittura con Pier Paolo Pasolini. Loro un cameo in una delle scene allo stesso tempo più deliranti e lisergiche della pellicola: un club in una caverna in cui Bava utilizza teli di PVC e filtri colorati per evocare le sensazioni delle danze di un gruppo di hippy.
Diabolik l’icona Pop
Se Diabolik aveva abituato gli italiani al glamour in un prodotto pop(olare), Bava si spinge oltre, trasformando il bianco e nero delle pagine in un’esplosione di colori Pop. L’accostamento tra giallo e nero, su tutti, mette in risalto il legame con la tradizione della libreria economica Mondadori e con la filosofia pulp, regalandogli poi una veste nuova, tutta yè-yè e Lichtenstein. Ne sono prova le incursioni nella pellicola di grafiche animate, che culminano con il volto a fumetti della modella Twiggy, simbolo indiscusso della nuova cultura giovanile.
La stessa silhouette del Re del Terrore intento a scagliare il suo pugnale realizzata dall’illustratore Remo Berselli, sarà capace di imporsi oltre il fumetto, entrando nel tessuto della cultura popolare italiana, dal tamburo della batteria de Gli Amici, gruppo spalla di Caterina Caselli, ai costumi di scena di molteplici complessi Beat tricolore. Senza dimenticare, poi, le parodie e i tributi nel tempo, come Cattivik e Paperinik. O, ancora, l’adozione del volto del Re del Terrore sulle bandiere di gruppi ultras e l’apparaizione, a metà anni ’90 sulle pagine di Domus nella pubblicità delle tapparelle Croci.
Uno scambio fittissimo tra tavole e cinepresa che negli stessi anni si ritrova nei film di Tinto Brass, alle cui sceneggiature prende parte anche Guido Crepax, come nelle tante (e meno fortunate) trasposizioni cinematografiche di tutti quei fumetti con la K che la Diabolik-mania aveva fatto nascere: da Kriminal a Satanik, passando per Modesty Blaze e il Baba Yaga di Valentina.
Il fumetto come specchio del costume italiano
In questa eleganza, inusuale per i fumetti a cui il pubblico italiano – e non – era stato abituato fino ad allora, c’è il gusto borghese di Angela Giussani e della sorella Luciana, capaci di coniugare la tensione e violenza del noir con una patina intellettuale e un’introspezione psicologica tutt’altro che da fumetto. Difficile pensare alla Valentina di Crepax e alla sua intellighenzia meneghina pop-erotica senza Diabolik.
Diabolik anticipa la complessità dei personaggi delle graphic novel – come in Italia solamente Corto Maltese di Hugo Pratt sa fare in quegli anni – tenendosi lontano dai superpoteri degli americani, dalle esagerazioni estetiche e narrative dei manga, e dai dialettismi politici(zzati) con cui il fumetto italiano sembra oggi aver trovato un appeal internazionale.
Per Diabolik non passa solamente il design italiano del tempo, ma anche il costume di una nazione. Come nel 1974, quando in occasione del referendum sull’aborto, il fumetto ospita sulle sue pagine una pubblicità in favore del NO. O ancora, sempre nello stesso anno (anno XXII, n.24), il Re del Terrore si lascia andare a elogi sulla Cina di Mao, riconoscendone i valori di uguaglianza. Un paese dove, secondo Eva Kant, “il furto diviene soltanto un’inutile provocazione” e dove Diabolik “non avrebbe più ragione d’esistere”. Saranno le stelle sorelle Giussani a dichiarare, in un’intervista per il Corriere della Sera, che Diabolik incarna un male che è proprio della società capitalista.
Come non riconoscere, poi, nella figura di Eva Kant – donna tanto spietata quanto profonda nei suoi sentimenti – un punto di riferimento per l’affermazione di una nuova rappresentazione della femminilità in un’Italia ancora fortemente paternalistica. Un’attitudine che rispecchia quella di Angela Giussani, il cui Diabolik fu soprattutto un guanto di sfida al marito, proprietario della casa editrice Astoria – da qui l’ironico e provocante nome di Astorina, publisher del fumetto.
Diabolik ci ha fatto appassionare all’anti-eroe, ricordandoci che nella vita il confine tra virtù e peccati non è mai così netto come cinema e fumetti avevano fatto credere sino ad all’ora. Così, anche Ginko, l’anti-anti eroe può diventare eroe. Per questa ragione siamo affezionati e grati a Diabolik. La sua criminalità è votata al genio, al furto sofisticato e mai alla violenza come nei film polizieschi che negli stessi anni iniziavano a popolare i cinema. E anche quando si tratta di sacchi di banconote, chiudiamo un occhio, se servono da coperta, mentre si fa l’amore, su un letto ruotante bianco.
Immagine di apertura: John Phillip Law e Marisa Mell sono Diabolik e Eva Kant sul set di Danger: Diabolik, Mario Bava, 1968. Courtesy Pinterest