Quale città lasceremo ai nostri figli? Ma soprattutto, quale capitalismo lasceremo ai nostri nipoti? La crisi delle città, infatti, è l’altra faccia della crisi del capitalismo a cui la pandemia di Covid-19 sembra aver dato il colpo di grazia, dopo l’emergenza climatica e l’aumento della disparità sociale. Del resto, la forma attuale del capitalismo, che si è venuta delineando negli ultimi cinquant’anni si è modellata proprio sulle grandi città globali, che restano la sua rappresentazione plastica, ovvero al tempo stesso lo spazio dei flussi e lo spazio dei luoghi. Il primo è immateriale e stabilisce una connessione fra luoghi spazialmente divisi. Il secondo è fisico e al suo interno vengono vissute le esperienze di connessione. Mettere in discussione questi spazi, come ha fatto la recente pandemia, significa mettere in discussione il modello economico di cui questi spazi rappresentano il sistema nervoso del nostro mondo.
Per provare a rispondere occorre non confondere l’emergenza con la realtà, un esercizio dove John Maynard Keynes può venirci d’aiuto con una lecture che tenne in una sera del lontano 1928 agli studenti di Winchester e Cambridge. Venti paginette perdute fra le migliaia scritte dell’economista inglese che due anni dopo, nel 1930, all’indomani della prima grande crisi globalizzata, pubblicò con il titolo Economic possibilities for our grandchildren, Possibilità economiche per i nostri nipoti. “Dai tempi più remoti di cui conserviamo traccia – diciamo da duemila anni prima di Cristo all’inizio del Settecento – il tenore di vita medio, nelle aree civilizzate, non è cambiato molto. Ha avuto i suoi alti e bassi, come no. Ci sono state pestilenze, carestie, guerre. Età dell’oro, anche. Ma un cambiamento come quello che abbiamo conosciuto noi, inarrestabile e brutale, l’uomo non lo aveva mai visto. Nei quattromila anni che hanno preceduto, grosso modo, il Settecento, ci sono stati tutt’al più periodi migliori di altri – però migliori al cinquanta, massimo al cento per cento, non di più. Le cause di un progresso così lento, se non inesistente, si potevano ridurre a due: l’assenza di invenzioni di qualche rilievo, e la mancata accumulazione di capitale”.
Così, davanti all’ennesima crisi finanziaria ed economica oltre che sanitaria e sociale, dovuta alla pandemia le previsioni di Keynes lasciano spiazzati. “Nel giro di pochi anni potremmo portare a termine ogni operazione connessa a queste attività (industriali, agricole, terziarie, trasporti, ndr) con un quarto dello sforzo necessario oggi. Al momento la rapidità di questi cambiamenti ci turba, e ci pone problemi di non facile soluzione. Per paradosso, i Paesi più attardati sono anche i più tranquilli. Noi invece abbiamo contratto un morbo di cui forse il lettore non conosce ancora il nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione tecnologica. Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e li scopriamo troppo in fretta per riuscire a ricollocare quella forza altrove. Ma si tratta di uno scompenso temporaneo”.
Keynes era tutt’altro che un ottimista ma qui si spinge ad affermare che nel lungo periodo l’umanità è destinata risolvere tutti i problemi di carattere economico. “Per la prima volta dalla creazione l’uomo si troverà ad affrontare il problema più serio, e meno transitorio, come sfruttare la libertà dalle pressioni economiche, come occupare il tempo che la tecnica e gli interessi composti gli avranno regalato, come vivere in modo saggio, piacevole e salutare. I grandi investitori, quelli che sanno sempre come fare soldi, possono portarci con loro nel regno dell’abbondanza. Ma di questa abbondanza godrà solo chi riuscirà a coltivare l’arte della vita, perfezionandola senza vendersi”.
L’amore per il denaro, per il possesso del denaro – da non confondersi con l’amore per il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita – sarà agli occhi di tutti un’abitudine morbosa e repellente.
Proprio come nel 1928 “a giudicare dal comportamento e dai risultati delle classi agiate di oggi, in ogni angolo del mondo, le prospettive non sono rosee. La maggior parte di loro – tutti quelli che hanno un reddito e però nessun legame con gli altri, nessun dovere, nessun obbligo – ha fallito, va detto, in modo disastroso. Non sono riusciti a risolvere il problema. Ma sono convinto che con un po’ di esperienza in più noi arriveremo a trarre da questa nuova abbondanza molto più profitto di quanto non facciano i ricchi di oggi, riuscendo a stilare un programma di vita molto migliore di loro. (…) dovremo fare più cose per noi di quanto ne facciano oggi i ricchi, così soddisfatti delle loro piccole incombenze, dei loro compitini, delle loro abitudini da poco. (…) ma potremo finalmente permetterci di assegnare al desiderio di denaro il suo giusto valore. L’amore per il denaro, per il possesso del denaro – da non confondersi con l’amore per il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita – sarà agli occhi di tutti un’abitudine morbosa e repellente.”
Keynes conclude che il cambiamento sarà generale ma lento, si avvererà un po’ alla volta, senza catastrofi. E sarà possibile solo se controlleremo l’aumento della popolazione, eviteremo le guerre, ci affideremo alla scienza e considereremo il tasso di accumulazione fissato tra produzione e consumo. Un programma difficile, non impossibile e forse oramai obbligato.
Certo, l’attualità che chiude in lock down le città e piega il capitalismo sembra smentire le profezie della lecture di Keynes, ma le terapie che invece scrisse nella sua Teoria generale molto meno. La globalizzazione dell’economia e dei virus, dei costumi e dei consumi richiederà sempre più un controllo globale per gestire la disoccupazione, gli squilibri, la tutela dell’ambiente e dell’umanità che non si possono già più accantonare in nome di una superiore ragione economica. Per questo il capitalismo e le città che stanno nascendo dalla pandemia sono già molto diversi da quelli che l’hanno preceduta. E avrà nella cultura di una nuova priorità di valori e di nuove esperienze il proprio asse, perché “il canto, si sa non è per tutti, ma solo chi canta riuscirà a sopportare la vita”.
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- Foto KE ATLAS su Unsplash