Tra le prime mosse di Ana Maria Hidalgo, subito dopo la rielezione a sindaco di Parigi, la conferma dei 50 chilometri di piste ciclabili create nella città durante il lockdown. Proprio durante il lockdown si sarebbero dovute svolgere le elezioni per il ballottaggio, in cui la sindaca partiva con un leggero vantaggio; rinviate al 28 giugno, sono diventate anche e soprattutto un voto sulla sua gestione della città durante il periodo d’emergenza. Ma la politica che ha reso Parigi oggi una delle città più “ciclabili” del mondo, con video di fiumi di biciclette che scorrono tra stradine e boulevard hanno fatto il pieno sui social media, non appare certo come una improvvisazione o una conversione green avvenuta in quarantena, e si inserisce invece perfettamente nel quadro complessivo del processo di trasformazione della città cominciata nel 2014, con il primo mandato di Hidalgo: il Coronavirus ha fatto da acceleratore all’ambizione di ridurre drasticamente il traffico a motore nella capitale francese, fino ad arrivare a mettere un limite di 50 chilometri all’ora sulla périphérique. Del resto, in un’area metropolitana che sorpassa i dodici milioni di abitanti, solo due milioni eleggono il sindaco, ovvero i parigini che abitano nei confini della ville lumière, e di loro solo poco più del 30% possiede un’auto.
“La città si è sempre plasmata sull'emergere di nuovi bisogni e comportamenti, il post Covid sta aiutando, nel suo stato emergenziale, a perfezionare procedure e modalità di intervento nello spazio urbano: la spinta innovativa di queste trasformazioni sta forse finalmente modificando un modo di fare e pensare la città ancorato ancora al secolo scorso”, spiega a Domus Orizzontale, il collettivo romano che ha dato un importante contributo sul ruolo delle terrazze al diario che abbiamo portato avanti durante i giorni della quarantena. Per orizzontale due sono gli assi portanti del cambiamento: il potenziamento delle connessioni ciclabili, percepito come “un cambio di prospettiva generale”, e le nuove misure di distanziamento, con attività che si svolgevano per lo più al chiuso e ora ricalibrano la loro natura “recuperano spazi dalla città auto-centrica”: nuove aree pedonali, dehors/parklet diffusi su carreggiata, pedonalizzazioni temporanee per aumentare lo spazio pubblico a disposizione di tutti.
Così, mentre Parigi pedala sempre di più, sull’altra sponda della Manica, viene creata una delle più grandi zone pedonali del pianeta, con l’allargamento dei marciapiedi in centro e nuove piste ciclabili in tutta Londra. La sfida è quella di permettere agli oltre due milioni di persone che utilizzavano la tube prima del lockdown di muoversi in città senza utilizzare l’auto. “Abbiamo bisogno che molti londinesi si spostino a piedi o in bici perché questo sia possibile”, ha detto il sindaco Sadiq Khan. Più piste ciclabili, più zone con accesso limitato al traffico. Lo schema non è nuovo, ma il Covid-19 l’ha accelerato in molte città e quartieri del vecchio continente: Milano, Berlino, Barcellona, anche Lisbona e Bruxelles e Bordeaux. Ma succede anche in negli Stati Uniti, dove la bici è stata uno dei beni più acquistati degli ultimi mesi: cento chilometri di nuove ciclabili a New York – è stato calcolato che a Manhattan una diminuzione dell’1% nell’utilizzo dei mezzi pubblici corrisponderebbe automaticamente a un aumento del traffico del 12% –, 25 a Toronto, strade chiuse alle auto a Boston, Minneapolis e Oakland, mentre a Seattle si discute se rendere definitivamente pedonali 32 chilometri di percorsi. A Bogotà, intanto, sono stati creati 76 nuovi chilometri di percorsi ciclabili utilizzando dei semplici coni stradali, portando il totale delle corsie dedicate alle bici nella capitale colombiana alla stratosferica cifra di 600 chilometri. “Proprio a Bogotà le politiche per una mobilità più democratica, sostenibile e leggera iniziano con Enrique Peñalosa e Antanas Mockus negli anni 90”, commenta Orizzontale, citando anche le esperienze di Jaime Lerner a Curitiba in Brasile o la teleferica di La Paz/El Alto in Bolivia. “Relegare l'automobile ad unico mezzo di trasporto è anti- democratico e il primo antidoto per sconfiggere la città segregata è un trasporto pubblico di qualità, in Sudamerica forse è più evidente perché le disparità sono abissali, ma possiamo applicare lo stesso ragionamento in tutte le città del mondo”.
Questo piccolo salto evolutivo che molte città stanno compiendo, con la ridisposizione degli spazi all’aperto a colpi di urbanistica tattica, spesso nell’accelerazione di qualcosa già innescato da tempo, è un adattamento concreto e contingente alla necessità di avere più spazio per ogni persona nel momento in cui deve spostarsi in città, ma richiamano immediatamente un tema cruciale per il nostro modo di vivere e pensare come si vive, quello della densità urbana. Nel 2016, più di un quinto della popolazione mondiale viveva in città con almeno un milione di abitanti. Le 300 aree metropolitane più grande producono metà del prodotto interno lordo del pianeta. La densità non solo aumenta la produttività, ma riduce in maniera considerevole l’impronta ecologica, ha dimostrato l’economista Edward Glaser, come recentemente sottolineato l’Economist. E ogni “lavoro della conoscenza” in una grande città come New York supporta fino a 5 professioni “di servizio”, spiega un altro economista, Enrico Moretti. E dunque se il lavoro per alcuni diventa remoto, i lavori di altri perderanno la loro fonte di reddito: basti pensare ai baristi nelle zone con alta densità di uffici, prima un continuo viavai di impiegati, oggi spopolate. “Basta smart working, torniamo a lavoro”, è la criticatissima affermazione con cui il sindaco di Milano Beppe Sala ha cercato di sollevare la questione qualche settimana fa. E poi ci sono il turismo e l’intrattenimento: Venezia è svuotata in maniera irreale, le cosiddette città d’arte si aspettano molti meno visitatori del solito, questa estate si viaggia per lo più all’interno dei confini nazionali e si dribblano i soggiorni in hotel, i cinema non esistono quasi più, Berlino piange i suoi club, di concerti e festival musicali se ne parla nel 2021.
Ci troviamo almeno all’apparenza davanti a un bivio: da un lato c’è l’area metropolitana densa e produttiva come l’abbiamo conosciuta fino a ieri, dall’altra un possibile modello sostenibile molto vicino a uno dei mantra dei verdi di qualche anno fa, la cosiddetta decrescita felice, quella “opportunità” di cui ha parlato recentemente a Domus anche Gilles Clement: meno spostamenti, meno consumi, fuga dalle città e felicità forse nell’immediato non proprio per tutti. Nella realtà però la situazione potrebbe essere più complicata, soprattutto in merito all’equazione che accoppia densità e virus. Secondo una indagine di ProPublica Illinois, alcuni quartieri di Chicago con una bassa densità ma situazioni di affollamento hanno registrato un numero di infezioni superiore a quello di quartieri dove la densità è molto più alta. E come sostiene su Grist, un magazine online di Seattle, James Spencer, professore alla Clemson University, il problema forse sta nel nella necessità di chiarirci bene cosa intendiamo per densità. “La densità riguarda la prossimità fisica nello spazio”, dice Spencer: “ma nessuno ha spiegato bene della densità di cosa stiamo esattamente parlando”.Se lo chiede anche Orizzontale: “nel dibattito architettonico di questi mesi è emerso più volte il tema della densità, da più parti si è detto che il futuro dovrà essere caratterizzato da una densità minore per prevenire ulteriori pandemie. Ma ne siamo davvero convinti?”. Il collettivo, parlando dell’Italia, auspica per una nuova direzione, e così come nelle città si lavora per rendere l’esperienza urbana più equa, “così anche a scala territoriale nazionale potremmo in questo modo sperimentare una distribuzione più democratica di persone e risorse, dopo anni di accentramento verso le grandi città”.