Tiffany Godoy è una giornalista e influencer di moda esperta di internet. È nata e cresciuta a Los Angeles, ma dalla fine degli anni Novanta vive perlopiù a in Giappone. Il suo ultimo lavoro sviluppato per Slam Jam, Social Network Systems, studia l’interazione di più piattaforme di comunicazione è il risultato dell’esperienza multisensoriale che la vita nelle strade caotiche e iper-commerciali di Tokyo.
Luca Benini, il fondatore di Slam Jam, negli anni Ottanta andava in certi quartieri di New York per conoscere la cultura underground (e magari siglare contratti con gruppi come i Public Enemy). Oggi invece tutto ciò che è alternativo dura un mese o poco più, si diffonde attraverso Instagram e, se funziona, viene subito comprato da marchi globali come Louis Vuitton. Esistono ancora dei quartieri o delle zone precise di alcune città in cui oggi possono svilupparsi questo tipo di culture?
È estremamente complicato rispondere, specie ora che con il covid-19 sono vietati gli assembramenti e quindi i festival, i concerti, gli eventi nei club, ma anche molti sport tranne quelli che è possibile praticare senza toccarsi reciprocamente come lo skateboard. Forse il modo in cui vivremo insieme sarà diverso, credo che sia anche stimolante provare a immaginare come si evolverà la situazione, ma penso che dobbiamo aspettare ancora un po’ per capirlo. Di certo manifestazioni come Art Basel sono molto difficili da tenere online. Alcune culture alternative invece si stanno organizzando in modi nuovi che chiamerei “servizi da sottoscrizione”: credo che i primi siano stati gli attori e attrici porno, organizzando esibizioni online “solo per i fan”, ma ben presto sono stati imitati da musicisti, perfomer artist, illustratori e molti altri con diverse quantità di sottoscrittori che possono così fare crowdfunding anche per migliorare la propria educazione.
Ma esiste ancora qualcosa di alternativo oggi secondo lei?
Ci sono oggi molte culture alternative soprattutto online, molte di queste stanno scomparendo ma altre invece si costituiranno un’identità virtuale a seconda della direzione che decideremo di prendere. Per esempio nel mondo dei videogiochi ce ne sono molte, conosciute da milioni di persone vecchie e giovani, non solo trentenni. Ci sono molte culture alternative di questo tipo in Cina… credo che alternativo non significhi piccolo, io preferisco chiamarle culture verticali perché attraversano più fasce d’età e più gruppi sociali.
Intanto le strade dello shopping sono uguali: in città, negli aeroporti, nei grandi centri commerciali. È un processo di virtualizzazione anche questo?
Il re della cultura di strada giapponese, Hiroshi Fujiwara, ha detto che in fondo non si possono digitalizzare né le persone né il cibo. Quindi i ristoranti rivestono un ruolo essenziale nella vita urbana perché non offrono solo cibo e bevande, ma anche intrattenimento e dunque per molti versi riportano strumentalmente le persone alla realtà, peraltro usando molto l’architettura per caratterizzare la propria identità.
Molti giocatori spendono molti soldi per personalizzare i personaggi su Fortnite e altri giochi. È un vero mercato?
Gli avatar non si sono ancora sviluppati veramente, nelle piattaforme di videogiochi ci sono alcuni strumenti o articoli che si possono comprare per personalizzare ad esempio la propria arma, è qualcosa di funzionale, ma la cosa interessante per la moda credo che sia la rivendita immediata, il reselling: è un fenomeno massiccio, anche ragazzi molto giovani ormai conoscono esattamente il valore globale di una t-shirt o altro grazie a una app come StockX, nata originalmente per il commercio delle sneaker per poi evolversi nello streetwear, è davvero ben fatta.
Recentemente Tom Ford ha dichiarato che secondo lui tutto il sistema della moda andrà in letargo necessariamente almeno per un po’, immagino che lei sia in disaccordo, o no?
Dobbiamo anzitutto considerare che la settimana della moda milanese sarà solo digitale e molto probabilmente lo saranno anche quelle di settembre e ottobre anche a Parigi e così via. Abbiamo però bisogno di alimentare i media e i consumatori in qualche maniera. Il digitale in ogni caso è una parte importante della moda, ora c’è la necessità di ripensare tutto e forse non torneremo al modo di fare precedente, i negozi saranno diversi, si organizzeranno probabilmente delle sfilate più piccole… C’è sempre un punto di rottura in ogni settore dal quale non si può tornare più indietro. Ovviamente l’esperienza fisica è fondamentale, riunire la gente nutre l’ecosistema, i contatti nelle conversazioni, nell’educazione, sono stati già colpiti specialmente negli USA, nessuno nelle università dell’Ivy League era preparato per il totale trasferimento online dei corsi.
Luoghi come lo Spazio Maiocchi a Milano che mescola moda, arte e design, possono davvero essere dei laboratori per la creatività o degli “incubatori” per un nuovo gusto nella moda? O al contrario è solo un nuovo tipo di negozio aperto vicino al Bar Basso?
Penso che siano esercizi utili a introdurre le persone più giovani, che magari hanno solo una cultura sulle sneaker, verso nuovi mondi e aprire così la loro mente. Credo possa essere veramente importante per l’educazione, oggi anche una maglietta è diventato uno spazio di espressione anche solo attraverso la grafica. Posti del genere possono aiutare i giovani a unire i puntini e crearsi così una cultura più ampia.
Molti studi di architettura, specie quelli più giovani, lavorano a livello internazionale progettando negozi di retail, qual è l’impatto di questa crisi su di loro? Ultimamente gli showroom non vogliono avere i vestiti in vetrina, a prima vista quelli di Prada a New York sembrano proprio vuoti…
Nella moda c’è un costante bisogno di creare nuove esperienze, sappiamo bene che un marchio è molto di più dei vestiti che produce. Ci sono così tante collezioni che oggi sono ferme per sovrapproduzione… Penso che negozi come i vari Dover Street Market, tanto per dire, debbano cambiare ed essere riconfigurati alla luce del telelavoro in casa, dovrebbero diventare “strutture con istruttori” per esempio nel design degli interni. La gente passerà più tempo in casa per cui l’arredamento giocherà un ruolo ancora più importante per il proprio stile di vita.
Come crede che il tema della sostenibilità stia cambiando oggi il sistema della moda? Per ora mi sembra che esistano solo piccole realtà che usano colori naturali per riciclare magliette usate, magari estraendo le tinture dalla frutta e dalla verdura coltivate nella stessa azienda agricola, insomma è ancora un fenomeno residuale.
È complicato, non esiste un manuale in grado di dirti cos’è sostenibile e cosa no, ci sono molti modi di essere sostenibili… credo che ogni fase della produzione vada riconsiderata in questo senso, in particolare credo che il primo su cui intervenire sia il packaging che usa molta, troppa plastica, ma chiaramente sarà un processo lento. Un altro aspetto che forse esula dall’ecologia, che però credo faccia parte a tutti gli effetti della sostenibilità, sia quello dei diritti umani. In altre parole la sostenibilità dev’essere anche economica per tutti colori che lavorano nella moda, senza nessun tipo di sfruttamento lavorativo, questo sarà sempre più importante. I grandi marchi come Chanel devono precedere tutti perché hanno il potere per farlo dopodiché gli altri seguiranno, ognuno a modo suo, anche se più lentamente.
Immagine di apertura: Tiffany Godoy, foto Erick Faulkner