Con un intervento delicato ma rigoroso, Marzia Migliora riesce a parlare di sfruttamento e schiavitù facendo scoprire al visitatore i tesori di Ca’ Rezzonico a Venezia. #BiennaleArte2017
Chiamata a entrare nell’intimo storico, morale e architettonico di uno dei palazzi più celebri di Venezia, in occasione della 57. Biennale d’Arte di Venezia, Marzia Migliora cita e reinterpreta elementi del passato evidenziando le contraddizioni e i ripetuti sfruttamenti della storia dell’umanità attraverso le suggestioni che giungono dalle opere custodite a Ca’ Rezzonico, messe in dialogo e in contrasto con quelle realizzate da lei. “Velme” è una mostra site-specific con cinque installazioni allestite all’interno di alcune sale del Museo del Settecento Veneziano.
Migliora affronta temi quali lo sfruttamento delle risorse naturali, il bracconaggio, la schiavitù, la condizione femminile e la prepotenza del potere dominante. Già dal titolo si intuisce il carattere della mostra, e di come l’artista sveli ciò che è nascosto e faccia riaffiorare ciò che è sommerso. Velma è un termine dialettale che indica una porzione di fondale lagunare poco profondo, che emerge in particolari condizioni di bassa marea, tanto a rischio quanto l’intero sistema lagunare. La mostra si sviluppa su tre piani del palazzo ed è guidata da un opuscolo illustrato dalla stessa artista, che viene consegnato al visitatore. Quest’ultimo diventa soggetto attivo, chiamato ad esplorare le sale del palazzo e scoprire le opere dell’artista, mimetizzate tra i tesori veneziani.
L’opera Quis contra nos. prende avvio dallo stemma della famiglia Rezzonico, presente in diversi ambienti del palazzo e che riporta la scritta in lettere dorate Si Deus pro nobis. La frase è tratta da San Paolo (Lettera ai Romani, 8, 31) e nella sua forma originale recita: SiDeus pro nobis, quis contra nos. (Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?). Nel corso della storia queste parole sono state utilizzate in molte occasioni e strumentalizzate per giustificare atti criminali, guerre e stermini di massa da grandi dittatori e uomini di potere. Migliora rivela la parte omessa del motto, applicandola su alcuni specchi monumentali della collezione del palazzo.
Un’opera di Pietro Longhi, Il Rinoceronte, diventa la citazione di altre due installazioni: Taci, anzi parla e Remains. La prima è la ricostruzione di una Moréta usando un calco del volto dell’artista. Si tratta di una curiosa maschera, come quella indossata dalla dama dalla veste bianca, rappresentata nel dipinto del Longhi: un ovale nero con due buchi in corrispondenza degli occhi. Le donne potevano fermarla sul viso soltanto stringendo tra i denti una mordacchia, rimanendo così costrette a tacere. Grazie a dei fili da illusionista l’opera rimane sospesa al centro di un boudoir – e qui l’artista spiega anche come il termine derivi dal francese bouder, mettere il broncio.
La seconda opera legata a Longhi, Remains, è la ricostruzione di un corno dorato di rinoceronte che traduce la scena rappresentata nel dipinto: un animale divenuto preda inerme, una sorta di attrazione da circo, il cui corno tagliato viene esibito da un uomo come trofeo. Nel grande salone al primo piano, da schiavi e oggetti incatenati a presenze umane, i soggetti del corpus scultoreo degli Etiopi portavaso di Andrea Brustolon praticano metaforicamente un passo in avanti nella loro condizione, grazie a una rotazione di 180° rispetto all’attuale posizione nella collezione. Nel portego de mezo, infine,si trova l’opera La fabbrica illuminata, dove una serie di cinque banchi da orafo, illuminati da luci al neon, sostengono ciascuno un grande blocco di salgemma. L’opera simboleggia l’“oro bianco”, il sale, elemento chiave nella storia commerciale di Venezia e parla dello sfruttamento delle risorse naturali e della forza lavoro necessaria per la loro trasformazione.