Entrambi, saggio e film, parlano di ambienti anonimi e stereotipati, privi di storicità e frequentati da persone in transito.
Sono abitacoli delle Ferrari, suite a cinque stelle, feste private in locali riservati. Il regista ci racconta di stanze banali, di un’architettura moderna senza autore, sulla quale si è posata la patina del tempo, come le camere di Château Marmont. Sono interni insespressivi, stanze qualunque. Sono l’immagine di moltissimi spazi in cui siamo già capitati. La sala d'aspetto di una clinica, il pianerottolo di un condominio, dove qualcuno ha messo una piantina, verde come il sottovaso di plastica che spunta dal vaso arancione uguale a tutti gli altri vasi che imitano la terracotta.
Sono ambienti nei quali siamo soltanto passati o dove siamo rimasti in attesa che succedesse qualcos’altro e per questo non vi abbiamo mai prestato molta attenzione. Sono spazi di cui sempre altri si sono presi cura, senza amarli. Sono interni in definitiva nei quali non abbiamo mai vissuto, che abbiamo lasciato invecchiare senza di noi. Iniziamo a vederli soltanto ora, quando ci vengono raccontati, quando diventano delle immagini.
Intorno ad essi allora si concentra l’attenzione, si riconoscono degli elementi che li descrivono come tali. Alla parola qualunque si inizia ad associare una serie di oggetti che acquistano un significato perché la loro presenza segnala che siamo capitati in un dove circoscritto da un certo numero di regole che chiamiamo stile e la visione del mondo, che esse sottendono eravamo abituati a soliti definire come estetica, almeno fino a quando questa visione del mondo si basava sulla teologia, su un’ ideologia o su un’utopia.
Estetica, in altre parole, è la percezione del bello derivata da un pensiero forte, come la religione o il marxismo cui fanno capo ad esempio l’arte gotica o l’esteica marxista. Oggi è prudente sostituire la parola estetica, troppo in odore di metafisica, con quella più rilassante di moda, riferendoci alla definizione che di essa ci ha lasciato Roland Barthes: l’appropriazione di una forma o di un uso da parte della società grazie ad alcune regole (…) è soltanto allora che il fenomeno di parure diventa fenomeno di costume.
II Home can be an airport or a library, a garden or a motorway dinner.
Le stanze di Somewhere sono suite con il loro arredi senza nulla di particolare, nulla di disegnato, non hanno nulla di squallido, la patina del tempo che le ricopre dà loro l’aria di tranquillo pomeriggio che ne rende accogliente l'anonimato. Assomigliano agli scatti di Francesco Bolis o all'asciutto bianco e nero di Sigal Ben David, che spiega il senso del suo lavoro quasi con le stese parole con cui abbiamo descritto l'ambiente di Somewhere: "The concept my work revolves around is our living space. Intimacy and time are essential components in shaping it. By photographing empty, deserted, functional or transitory living spaces, I refer, as well, to what we consider as habitual living space. There is a fine line between aesthetic and disturbing, intimacy and alienation, familiar and formal. In my photography work I question what makes a space actually a home?".
A questa domanda risponde un Lettore di Proust, cui ha dedicato un piccolo saggio, Alain de Botton. Non stupisce quindi che, per definire l’ambiente domestico in Architecture of Happineness, egli faccia ricorso prevalentemente all’elemento psicologico: "In turn, those places whose outlook matches and legitimates our own, we tend to honour with the term home". Architettura e design, ovvero le discipline del progetto, non sono coinvolte e non lo sono perché non vogliamo una casa, vogliamo sentirci a casa.
"Home can be an airport or a library, a garden or a motorway dinner.", continua De Botton."Our love of home is in turn acknowledgement of the degree to which our identity is not self- determined. We need a home in the psycological sense as much as we need one in the physical: to compensate for a vulnerability. We need a refuge to shore up our states of mind, because so much of the world is opposed to our allegiances. We need our rooms to align us to desirable versions of ourseves and to keep the important, evanescent sides of us".
Nella trama di Sofia Coppola a rendere domestici quegli ambienti è proprio qualcosa che ricorda le madeleines di Marcel Proust: una colazione con delle uova alla benedict preparata con cura, dei momenti trascorsi di fronte alla Wii, ma mai nessun elemento di arredo, nessuna sedia, divano, tavolo o quadro e tanto meno nessuna volta, nessun tetto piano, nessun elemento proprio del linguaggio dell’architettura, il cui squallore è cancellato proprio dalla patina del tempo che posatosi su di essa, la ha resa più famigliare, come gli anni, che ammmorbidendo i tratti di un volto ne cancellano la severità trasformandola a volte in tristezza, in malinconia o in serena rassegnazione.
III Non rinuceremo facilmente allo stato moderno.
Agli architetti non resta dunque che iscriversi a dei corsi di cucina o sostiutire la matita con la consolle di un videgioco? Che senso ha riaffermare il progetto nonostante la storia abbia reso obsolete le ragioni stesse sulle quali era costruita ogni proiezione? Sarebbero progetti senza senso?
"With the growing presence of Internet as a site of social interaction and society’s increasing mobility architecture’s formerly central role in making place, and even the need of place, has been called into a question", scrive infatti Einsemann. "Displace metaphysics, and architecture’s role in framing presence as thruth becomes problematized".
Proviamo a riguardare questi Somewhere ingialliti. Hanno lo stesso colore dei mobili che si trovano dai rigattieri, sono ambienti moderni vintage, essi sono case, sono stanze disadorne che un tempo parlarono di futuro, con la sua promessa di velocità e tecnologia, democrazia e scienza. Anzi, in quanto anonime sono l’architettura banale descritta da Alessandro Mendini nella Poltrona di Proust e quindi di quelle promesse rappresentarono da sempre soltanto l’eco.
A ben guardarli, questi interni, sbiaditi coma una vecchia fotografia, ci parlano della stanchezza del moderno, del suo lento appassire, della crisi profonda, irreversibile delle democrazie occidentali, cioè dei modelli sociali che avevano generato quelle architetture.
Non sembra quindi casuale la sincronia colta da Andrea Branzi tra il mondo moderno, globalizzato, senza più un esterno e una societa diventata una moltitudine, dove gli Stati sono sempre più deboli: "Viviamo in un mondo che non ha più un esterno, né politico né geografico. (..) Un mondo definito ma non definitivo: illimitato ma con limiti di sviluppo; monologico ma ingovernabile; senza confini, ma privo di un’immagine globale.
Il Non Luogo augeriano, interpretato dal moderno vintage delle immagini di Somewhere, sembra quindi trovare riscontro nei sentimenti di John Dunn: "Non rinunceremo facilmente allo stato moderno. (…) Oggi, in politica, democrazia è il nome di ciò che non possiamo avere e che tuttavia non possiamo smettere di volere".
Riaffermare le discipline del progetto come utopie, anzi come nuove utopie potrebbe quindi significare non smettere di credere - sono parole di Richard Rotry - che le società liberal-democratiche dell’Occidente hanno dato luogo alla miglior forma di vita associata tra quelle promosse nell’umanità nella sua storia, ma al tempo stesso ritenere che questo sia il frutto di una convinzione non suscettibile di dimostrazione.
Immagini:
1 Sofia Coppola, da Somewhere 2010
2-4 Sigal Ben David, Untitled 07.25.09
© Sigal Ben David
5 Château Marmont, standard room
Courtesy Château Marmont
6-7 Francesco Bolis, Lawrence Steele's house
© Francesco Bolis
8-9 Francesco Bolis, Maurizio Pecoraro's house
© Francesco Bolis
10Cucina CUBEX, CIAM Palais des Beaux Arts de Bruxelles, 1930.
© AAM










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