Emilia De Vivo: Lo studio SelgasCano è firma molto nota in Spagna, meno sulla scena internazionale, quasi assente in Rete. Prima dell’uragano Serpentine, s’intende. Scelta insolita, se riferita all’autoaffermazione ossessiva che invade i media. C’è un motivo?
SelgasCano: Ci piace progettare per la gente tra la gente. La nostra radice è nella società. Siamo più presenti così che se lo fossimo nei media. Ci mimetizziamo tra la gente. Il potere dell’architetto è stare dentro le cose per trasformarle. Non è un problema di falsa umiltà, è un fatto di realismo, di sapere bene dove siamo, essere consapevoli di dove ci troviamo nel mondo. La nostra realtà sta nel giorno per giorno di un mondo normale, con tutte le nostre ansie, le inquietudini e i nostri desideri. L’immagine mediatica può diffondere certo il nostro nome nel mondo, ma inevitabilmente lo distacca dalla realtà e inevitabilmente architettura e persone rimangono separati.
Emilia De Vivo: Architettura come vita vissuta. Metodo radicale antico, rivoluzionario e innovativo insieme. Chi sono i vostri maestri?
Josè Selgas: Ho lavorato a Napoli per un periodo, con Francesco Venezia, e ho imparato che le cose non escono da te, ma da come interpreti le cose che già sono intorno a te. Se hai un po’ di sensibilità le vedi, non si tratta di genio ispirazionale o di ‘personalità creativa’. Ma l’origine della nostra formazione viene da parte di Lucía, dalla sua famiglia, tre fratelli architetti, oggi uno dei cinque studi più noti in Spagna, e suo padre, Junio Cano Lasso, uno dei maestri dell’architettura spagnola.
Lucía Cano: Sì, abbiamo lavorato con lui i primi anni. Con lui abbiamo avuto sempre un contatto molto prossimo, oltre che di lavoro, di vita in comune. Da piccoli lo studio di mio padre era parte della casa e della nostra vita. Tutto ciò che lui faceva, progettava, il modo in cui adattava progressivamente casa ai nostri cambiamenti, avveniva in continua armonia con la natura. Un aspetto importante che ora è dentro le cose che facciamo, uno stile di vita che finisce per formarti culturalmente.
Emilia De Vivo: Se l’architettura è esperienza e vita reale, che ne è dell’accademia, della formazione universitaria?
Josè Selgas: Il luogo proprio della libertà dovrebbe essere nella società, più che in un luogo (architettonico) specifico. Credo che questo concetto sia totalmente offuscato, occultato, dalla formazione accademica corrente, necessaria certo, ma così come la riceviamo finisce per schiacciare la realtà delle cose. Nostro lavoro personale è stato quello di liberarci di tutti i cliché ricevuti nel percorso universitario, dogmi che ci hanno bloccato senza che capissimo perché. Progettare è un fatto immediato, naturale. Rifiutare quei cliché ci ha fatto crescere e diventare quel che siamo. L’architettura esiste già, e l’incontro con la realtà è fondamentale per scoprirla. Conoscere e scontrarsi col reale significa conoscere anche l’economia delle cose, l’architettura è anche quello, ma all’università non te lo dicono bene, ti fanno sembrare tutto possibile nel mondo del progetto. I problemi economici vengono vissuti come meri dissuasori nel binomio negativo no soldi = no architettura. Se l’architettura serve a risolvere problemi e a far star meglio la gente, se non ci sono soldi o ce ne sono pochi, ti inventi un modo per progettare qualcosa di buono con quei soldi. Come abbiamo fatto a Badajoz con un budget limitatissimo.
Emilia De Vivo: Problemi economici come stimolo alla ricerca progettuale dunque.
SelgasCano: Cedric Price dice che l’architettura non esclude l’uso di nessun materiale. Così abbiamo capito che non escludere nessun materiale può significare escludere i più costosi. Ma dire che sia una scelta non sarebbe corretto perché la realtà è che l’abbiamo fatto sempre a causa di condizioni di progetto a basso costo. Questo ci ha portato a cercare dove non c’era nulla e cercare materiali diversi, ma sempre i più economici. A Badajoz abbiamo composto insieme tubi di plexiglass trasparenti per costruire intere facciate dalle tessiture inaspettate.
Emilia De Vivo: La vostra architettura sembra avere sembianze metafisiche per spazio, leggerezza, atmosfere, e fattura artigianale per tattilità e materia. Una parte importante del vostro lavoro si svolge in cantiere a contatto con gli operai. Fare architettura significa anche quello?
SelgasCano: Il modo in cui si realizza un’opera è fondamentale. Siamo convinti che molto dipenda da come lavorano le persone coinvolte e da come sono coinvolte nel lavorarci. La partecipazione attiva degli operai, la sintonia con la loro manualità e competenza sono aspetti importanti per la riuscita e la qualità dell’opera. Apprendiamo molto dagli operai, sono loro a suggerire nuovi punti di vista al sollevarsi di un problema imprevisto. In cantiere si crea un nuovo ambiente progettuale concreto, complementare a quello del progetto disegnato. Le relazioni vive con questo mondo non ci vengono raccontate nella formazione universitaria. Alla fine le cose sono costruite dalle persone.
Emilia De Vivo: Nel vostro percorso professionale la formazione accademica è stata assorbita, attraversata e destrutturata al punto da far pensare a una sua rifondazione in nome dell’architettura del fare. Perché non farne scuola?
SelgasCano: È quel che è successo, sebbene inconsapevolmente, al corso tenuto al MIT di Boston. Il nostro modo di fare è stato uno shock brutale per l’accademia, quintessenza di tecnologia, astrazione, sperimentazione scientifica. Tutte cose che a noi direttamente non interessano, ci interessa forse la relazione con la realtà di quei parametri scientifici. Al MIT la scala umana non è un parametro, si studiano i massimi sistemi, i big data, l’impatto delle azioni dell’uomo a livello planetario. Abbiamo impostato la nostra didattica sulla realizzazione fisica dei progetti che studiavamo con l’obiettivo di far comprendere gli aspetti economici di quello che facevamo. Abbiamo cercato di utilizzare il patrimonio scientifico disponibile grazie alle tecnologie di analisi e simulazione, per risolvere problemi elementari di una comunità tribale a Turkana, in Africa. Due mondi che più opposti non si può. La tecnologia ci ha aiutato a comprendere l’ambiente, la climatologia, il sole, le temperature, correnti e ventilazioni, un livello di studio estremamente sofisticato per risolvere problemi estremamente primari, quale può essere la costruzione di un luogo protetto in una delle zone più desertiche al mondo.
All’esposizione finale del progetto abbiamo avuto molte critiche, il progetto è sembrato un capriccio frivolo, Turkana era ritenuto un posto non vicino alla realtà, dunque non un modello. Ma il nostro compito era spingere i limiti, dimostrare come il confrontarsi con le cose, di più se estreme, genera progetto. La provocazione è stata mettere a confronto il mondo più cerebrale e tecnologico del mondo, con quello più primitivo e istintivo del mondo. Solo così l’accademia può aver senso, se se ne dimostra l’uso per i bisogni primari dell’uomo.
L’esperienza di Boston è stata una parentesi importante nel nostro lavoro: la vita accademica faceva parte di una vita collettiva con gli studenti che era parte della nostra stessa vita. Se di rifondazione accademica si può parlare, noi la intendiamo come una fusione tra l’insegnamento e il vissuto reale, senza il quale l’accademia resta arida. L’eredità del ciclo didattico al MIT è lo studio di architettura fondato dal gruppo di studenti che ha vissuto con noi l’esperienza a Turkana.