Come nasce l'idea della mostra e da quali presupposti?
Questa mostra nasce dalla nostalgia. Ho seguito la campagna delle primarie del 2008 quella che vedeva contrapposti Barack Obama e Hillary Clinton e poi la campagna con John McCain. L'ho seguita tutta, ho attraversato l'America, ho fatto diciotto stati in trentasei mesi e mi è rimasta fortissima questa sensazione di partecipazione popolare, questo teatro che si costruisce continuamente. Mi sarebbe piaciuto ricostruire quelle sensazioni che facessero capire cos'è una campagna elettorale americana anche agli italiani. È nata così una mostra con materiali completamente diversi: dalla collezione di fotografie dell'agenzia Magnum – da Kennedy fino a Obama – fino all'arte contemporanea. Dall'artista cinese Yang Pei Ming all'americano Horowitz all'italiano Vezzoli, che hanno lavorato sul tema delle elezioni americane. E poi, tutto quello che fa parte della cultura visiva dagli spot elettorali degli anni Cinquanta, con il dibattito Kennedy-Nixon, fino alla collezione di gadget, i pin, dal 1896 a oggi. A questo si aggiunge una rassegna di cinema organizzata insieme al Museo del Cinema di Torino. Il cinema è un altro grande indagatore, riesce meglio di tutte le altre arti a indagare i meccanismi del potere americano, basta pensare a film come Tutti gli uomini del presidente o Frost/Nixon.

Nelle fotografie, nelle immagini, una cosa che colpisce sono i gesti, la manualità. Un vecchio detto americano dice "più mani stringi più voti porti a casa", oggi non è più così perché sono campagne televisive, digitali, può molto più youtube di una stretta di mano. L'importante è che il gesto della stretta di mano sia ripetuto milioni di volte, dalla televisione e da youtube. Ho notato, mentre allestivamo la mostra, una differenza sostanziale tra i candidati presidenti repubblicani e democratici. I democratici, proiettati maggiormente verso la gente, tendono ad allungare le mani verso le persone, verso il basso. I repubblicani, invece, alzano le mani verso l'alto, la W in segno di vittoria. Nixon, per esempio, aveva sempre le braccia alzate verso l'alto. Invece Kennedy, Clinton e Obama hanno sempre le mani verso il basso e questo da una connotazione politica precisa ai candidati.

Penso che si sia rafforzato non tanto il sogno ma il mito del sogno. In un momento di difficoltà, gli americani hanno sentito ancora più forte il bisogno dell'appartenenza, il paese si è polarizzato e diviso, tra repubblicani e democratici, però l'appartenenza all'America non è venuta meno in tempi di crisi.
La fotografia ha sempre raccontato l'american dream, dalle montagne fotografate da Ansel Adams fino a Walker Evans e la depressione del '29, da Robert Frank ai New Topographics, Lee Friedlander, Robert Adams, William Eggleston e Stephen Shore. La fotografia ha ancora la forza di raccontare un sentimento nazionale e un'idea di appartenenza?
Io sono partigiano, ho una grande collezione di fotografie americane quindi la mia risposta è sì. Nelle fotografie riesco a trovare ancora l'emozione che ho sentito viaggiando sulle strade americane. Questo non vale solo per la contemporaneità, perché l'America di oggi è ancora rappresentata da Robert Frank, la trovi ancora dentro Ansel Adams. La cultura dell'Ottocento, ad esempio Tocqueville, in parte quell'America la trova ancora e colpisce come il DNA americano si sia conservato intatto. Mi sembra che la fotografia oggi riesca ancora a restituircelo.

È un paese di spazio. Il sociologo De Rita dice che il nostro problema in Italia è la mancanza di spazio fisico e mentale per i giovani. L'America ha spazio fisico e mentale, soprattutto fisico. Mi colpisce il fatto che a Manhattan, vent'anni fa, si trovavano ancora aree pericolose, dove però agivano artisti con operazioni di frontiera. Oggi non c'è più niente di tutto questo, New York è una città gentrificata, lineare, gli artisti sono emigrati a Brooklyn, nel Bronx o in altre zone d'America. Questa idea dello spazio che si rinnova c'è sempre. L'altro aspetto dello spazio è l'abbandono, lo spazio che permette di spostarsi senza ricostruire come accade a Detroit, dove ci sono aree abbandonate immense che mettono angoscia. Questo non sarebbe possibile in Europa perché nessuno si potrebbe permettere di lasciare quello spazio disabitato, lo si ricostruirebbe. Invece in America si ha l'idea di qualcosa che è stato buttato via. Vedere una città buttata via è angosciante.

Il ruolo dei media nel raccontare una campagna elettorale rimane fondamentale anche quando i candidati, come nel caso di Obama, vorrebbero parlare direttamente senza mediazioni giornalistiche. Questo alla fine non riesce e non esiste, la mediazione giornalistica consiste nell'indicare i temi cruciali di una campagna e far comprendere quali sono gli elettori e le aree determinanti, ma soprattutto mettere in evidenza gli errori con il lavoro di fact checking, ovvero il controllo dei fatti e delle dichiarazioni dei politici, è quello che manca di più in Europa e in Italia. Negli Stati Uniti, se un candidato dice qualcosa non esatto non può pensare di sopravvivere ventiquattro ore alla sua bugia o al suo errore, in Italia invece abbiamo politici che sono sopravvissuti anni.


