For President

Alla vigilia delle presidenziali 2012, Domus incontra Mario Calabresi, direttore della Stampa e curatore di una mostra che, mescolando fotografia e arte, offre un ritratto dell'America, da sempre divisa in due durante le campagne elettorali.

La contaminazione tra l'attualità giornalistica e l'arte contemporanea è l'aspetto più interessante di "For President", mostra curata da Mario Calabresi con Francesco Bonami alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Raccontando uno spaccato dell'America divisa in due durante le campagne elettorali, le fotografie rappresentano il corpus più significativo dei materiali in mostra, anche se la scelta di utilizzare il solo archivio Magnum appare parziale e fornisce unicamente un punto di vista fotogiornalistico di supporto al tema della mostra. In maniera diversa, invece, le ricerche degli artisti, che lavorano sul tema delle elezioni, appaiono più in linea con la mission culturale della Fondazione Sandretto garantendo un impatto visivo ed emozionale più spaesante. Oltre al lavoro di Jonathan Horowitz, Obama '08, si segnala il video Perfect leader di Max Almy, prodotto in concomitanza con la campagna presidenziale del 1984 con protagonisti il repubblicano Ronald Reagan e il democratico Walter Mondale. Sullo stesso piano si colloca l'italiano Francesco Vezzoli con Democrazy: l'artista bresciano rappresenta con un video gli spot elettorali di due candidati, Patricia Hill e Patrick Hill, impersonati dall'attrice Sharon Stone e dal filosofo Bernard Henry Levy. È sempre protagonista il video in Political Advertisement VII: 1952-2008, realizzato da Antoni Muntandas e Marshall Reese dove il soggetto è una raccolta di spot televisivi della propaganda elettorale, da Eisenhower a Obama, che testimonia il mutare delle strategie. D'altronde la scelta di artisti che producono un'arte "politica" contraddistingue l'operato di Francesco Bonami, fin dalla Biennale veneziana da lui diretta nel 2003 e ne dimostra, proprio in questa mostra, l'efficacia. Sarebbe utile che anche i musei pubblici attuassero politiche culturali meno astratte e più correlate ai grandi temi che la società sta attraversando, dalla crisi economica alla catastrofe ambientale. Ne abbiamo parlato con Mario Calabresi, che racconta a Domus com'è nata l'idea della mostra.

Come nasce l'idea della mostra e da quali presupposti?
Questa mostra nasce dalla nostalgia. Ho seguito la campagna delle primarie del 2008 quella che vedeva contrapposti Barack Obama e Hillary Clinton e poi la campagna con John McCain. L'ho seguita tutta, ho attraversato l'America, ho fatto diciotto stati in trentasei mesi e mi è rimasta fortissima questa sensazione di partecipazione popolare, questo teatro che si costruisce continuamente. Mi sarebbe piaciuto ricostruire quelle sensazioni che facessero capire cos'è una campagna elettorale americana anche agli italiani. È nata così una mostra con materiali completamente diversi: dalla collezione di fotografie dell'agenzia Magnum – da Kennedy fino a Obama – fino all'arte contemporanea. Dall'artista cinese Yang Pei Ming all'americano Horowitz all'italiano Vezzoli, che hanno lavorato sul tema delle elezioni americane. E poi, tutto quello che fa parte della cultura visiva dagli spot elettorali degli anni Cinquanta, con il dibattito Kennedy-Nixon, fino alla collezione di gadget, i pin, dal 1896 a oggi. A questo si aggiunge una rassegna di cinema organizzata insieme al Museo del Cinema di Torino. Il cinema è un altro grande indagatore, riesce meglio di tutte le altre arti a indagare i meccanismi del potere americano, basta pensare a film come Tutti gli uomini del presidente o Frost/Nixon.
In apertura: il senatore dello Stato di New York Robert Francis Kennedy in campagna elettorale in un paesino dell'Indiana, USA, 1968. © Burt Glinn / Magnum Photos. Qui sopra: Yan Pei-Ming, <i>U.S. Election: Obama / McCain</i>, 2008, dittico di acquerelli su carta. Courtesy Massimo De Carlo, Milano
In apertura: il senatore dello Stato di New York Robert Francis Kennedy in campagna elettorale in un paesino dell'Indiana, USA, 1968. © Burt Glinn / Magnum Photos. Qui sopra: Yan Pei-Ming, U.S. Election: Obama / McCain, 2008, dittico di acquerelli su carta. Courtesy Massimo De Carlo, Milano
Nel testo introduttivo alla mostra parli dell'importanza delle mani e della gestualità dei candidati, mi vuoi spiegare da dove nasce questa considerazione?
Nelle fotografie, nelle immagini, una cosa che colpisce sono i gesti, la manualità. Un vecchio detto americano dice "più mani stringi più voti porti a casa", oggi non è più così perché sono campagne televisive, digitali, può molto più youtube di una stretta di mano. L'importante è che il gesto della stretta di mano sia ripetuto milioni di volte, dalla televisione e da youtube. Ho notato, mentre allestivamo la mostra, una differenza sostanziale tra i candidati presidenti repubblicani e democratici. I democratici, proiettati maggiormente verso la gente, tendono ad allungare le mani verso le persone, verso il basso. I repubblicani, invece, alzano le mani verso l'alto, la W in segno di vittoria. Nixon, per esempio, aveva sempre le braccia alzate verso l'alto. Invece Kennedy, Clinton e Obama hanno sempre le mani verso il basso e questo da una connotazione politica precisa ai candidati.
Sostenitrice di Barry Goldwater, candidato alle presidenziali nel 1964. Photo © Eve Arnold / Magnum Photos / Contrasto
Sostenitrice di Barry Goldwater, candidato alle presidenziali nel 1964. Photo © Eve Arnold / Magnum Photos / Contrasto
Quanto è cambiato l'American Dream in questi ultimi anni di crisi?
Penso che si sia rafforzato non tanto il sogno ma il mito del sogno. In un momento di difficoltà, gli americani hanno sentito ancora più forte il bisogno dell'appartenenza, il paese si è polarizzato e diviso, tra repubblicani e democratici, però l'appartenenza all'America non è venuta meno in tempi di crisi.

La fotografia ha sempre raccontato l'american dream, dalle montagne fotografate da Ansel Adams fino a Walker Evans e la depressione del '29, da Robert Frank ai New Topographics, Lee Friedlander, Robert Adams, William Eggleston e Stephen Shore. La fotografia ha ancora la forza di raccontare un sentimento nazionale e un'idea di appartenenza?
Io sono partigiano, ho una grande collezione di fotografie americane quindi la mia risposta è sì. Nelle fotografie riesco a trovare ancora l'emozione che ho sentito viaggiando sulle strade americane. Questo non vale solo per la contemporaneità, perché l'America di oggi è ancora rappresentata da Robert Frank, la trovi ancora dentro Ansel Adams. La cultura dell'Ottocento, ad esempio Tocqueville, in parte quell'America la trova ancora e colpisce come il DNA americano si sia conservato intatto. Mi sembra che la fotografia oggi riesca ancora a restituircelo.
Francesco Vezzoli, <i>Democrazy</i>, 2007, video installazione due canali, 1'. Photo Matthias Vriens
Francesco Vezzoli, Democrazy, 2007, video installazione due canali, 1'. Photo Matthias Vriens
Quello che mi ha sempre interessato dell'America, a partire dal lavoro fatto da Paolo Soleri nel deserto dell'Arizona ad Arcosanti, è la possibilità di poter esprimere la propria libertà grazie alla vastità del territorio.Oggi nella contrapposizione tra la metropoli e la frontiera in questi luoghi che hanno ospitato le sperimentazioni della Land-Art, o Bucky Fuller e la Drop-City, la comune di artisti, c'è ancora spazio per esprimere questa libertà?
È un paese di spazio. Il sociologo De Rita dice che il nostro problema in Italia è la mancanza di spazio fisico e mentale per i giovani. L'America ha spazio fisico e mentale, soprattutto fisico. Mi colpisce il fatto che a Manhattan, vent'anni fa, si trovavano ancora aree pericolose, dove però agivano artisti con operazioni di frontiera. Oggi non c'è più niente di tutto questo, New York è una città gentrificata, lineare, gli artisti sono emigrati a Brooklyn, nel Bronx o in altre zone d'America. Questa idea dello spazio che si rinnova c'è sempre. L'altro aspetto dello spazio è l'abbandono, lo spazio che permette di spostarsi senza ricostruire come accade a Detroit, dove ci sono aree abbandonate immense che mettono angoscia. Questo non sarebbe possibile in Europa perché nessuno si potrebbe permettere di lasciare quello spazio disabitato, lo si ricostruirebbe. Invece in America si ha l'idea di qualcosa che è stato buttato via. Vedere una città buttata via è angosciante.
John F. Kennedy, campagna presidenziale, USA, 1960. Photo Cornell Capa © International Center of Photography / Magnum Photos / Contrasto
John F. Kennedy, campagna presidenziale, USA, 1960. Photo Cornell Capa © International Center of Photography / Magnum Photos / Contrasto
Qual è il ruolo dei media nel raccontare una campagna elettorale e quali sono le differenze tra Europa e America?
Il ruolo dei media nel raccontare una campagna elettorale rimane fondamentale anche quando i candidati, come nel caso di Obama, vorrebbero parlare direttamente senza mediazioni giornalistiche. Questo alla fine non riesce e non esiste, la mediazione giornalistica consiste nell'indicare i temi cruciali di una campagna e far comprendere quali sono gli elettori e le aree determinanti, ma soprattutto mettere in evidenza gli errori con il lavoro di fact checking, ovvero il controllo dei fatti e delle dichiarazioni dei politici, è quello che manca di più in Europa e in Italia. Negli Stati Uniti, se un candidato dice qualcosa non esatto non può pensare di sopravvivere ventiquattro ore alla sua bugia o al suo errore, in Italia invece abbiamo politici che sono sopravvissuti anni.
Ramak Fazel, Smithsonian Freer Gallery, Washington, 20 gennaio 2009, 
10 stampe fotografiche a colori, 60x60 cm ognuna. Courtesy l'artista
Ramak Fazel, Smithsonian Freer Gallery, Washington, 20 gennaio 2009, 10 stampe fotografiche a colori, 60x60 cm ognuna. Courtesy l'artista
Ronald Reagan alla convention nazionale dei Repubblicani. California, USA. 1964. Photo © Burt Glinn / Magnum Photos
Ronald Reagan alla convention nazionale dei Repubblicani. California, USA. 1964. Photo © Burt Glinn / Magnum Photos
Jonathan Horowitz, <i>Obama 08</i>, 2008, installazione mixed media.
Courtesy Gavin Brown's Enterprise, New York
Jonathan Horowitz, Obama 08, 2008, installazione mixed media. Courtesy Gavin Brown's Enterprise, New York

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