Prima di visitare la mostra che Laura Traldi ha curato all’interno di “De Rerum Natura - Rinascimento” alla Cascina Cuccagna si è gentilmente invitati a prendere un foglio bilingue che riporta un glossario. Ci si trovano le definizioni delle parole ricorrenti di “Design Collisions”, per prime le due che formano il titolo della mostra. Sgomberare il campo da fraintesi linguistici e imprecisioni semantiche è il primo passo per comprendere a fondo quanto verrà mostrato nelle sei sezioni che compongono una rassegna decisamente meno glamour e facilmente intellegibile della gran parte di quelle che costellano la rete del fuorisalone, perché il cuore delle storie che racconta non è nell’oggetto finale (che spesso neppure c’è): è l’intelligenza collettiva. Perché tutte e quindici le storie - e i relativi progetti - nascono in comunità per la comunità, per affrontare insieme i problemi che affliggono tutti noi. Qui il Rinascimento non riguarda il singolo, ma il gruppo, e nasce dalla “traduzione di idee in progetti realizzabili” (design) e dall’“incontro dinamico tra particelle che determina uno scambio di energia” (collisions). Approfondiamo con la curatrice.
Definisci meglio cosa intendi per design. Da quello che si vede in mostra non è appannaggio dei soli designer.
In Italia è sempre stato il racconto, attraverso gli oggetti, di un mondo sociale e antropologico. Ma non è così ovunque e soprattutto non lo era in Olanda dove ho lavorato per molti anni per Philips Design, quella bellissima realtà gestita da Stefano Marzano che faceva lavorare insieme scienziati, designer, psicologi e antropologi per realizzare progetti visionari che mettessero in scena il futuro della tecnologia. Io sono crescita pensando che quella miscela di approccio sociale, progettuale e tecnologico, quel progetto collettivo e multidisciplinare, fosse il design. Alla fine, il design è tante cose, si evolve moltissimo nel tempo ed è soggetto a interpretazioni fuorvianti per il fatto di essere così “pop”. Ognuno lo declina e lo interpreta in modo diverso. Mi dà solo fastidio quando lo si lega alla sola forma, a un’estetica un po’ vuota e non legata alla cultura, come invece avviene in tanto design italiano. L’approccio più internazionale è il design thinking, una dimensione che mi appartiene di più.
Una dimensione che, nel caso di “Design Collisions”, coinvolge attori eterogenei e intere comunità, come suggerisce il sottotipo della mostra: the power of collective ideas.
L’idea della mostra mi è venuta mentre intervistavo per LaRepubblica Marinella Senatore, un’attivista che, dal 2006, ha coinvolto oltre 5 milioni di persone in tutto il mondo per ideare, sviluppare e mettere in scena opere, performance, parate urbane, spettacoli, video e installazioni. Ci trovavamo a Palermo per Manifesta 12 e mi hai spiegato come “il fare insieme permetta la risoluzione dei conflitti” e, anzi, come “nello sviluppo dell’atto creativo il conflitto vada cercato perché è la sua risoluzione che permette di procedere e realizzare qualcosa di nuovo”. Io non ho fatto altro che chiedermi che cosa succede quando ad attivare le persone è un approccio progettuale, e così la mia ricerca di esempi eccellenti è cominciata.
Qual è stato il criterio di selezione di questi progetti?
Non essere delle novità e avere avuto un impatto comprovato sulla società. Sembra un paradosso non scegliere il nuovo considerato che di mestiere faccio la giornalista ma non volevo iniziative sperimentali, solo casi che fossero durati nel tempo e che avessero avuto un impatto quantificabile: nel caso del progetto dei diritti per le donne - Women’s Hands di Patrizia Scarzella - 500 hanno ora il lavoro, mentre grazie al programma Days for Girls sono un milione le ragazzine che hanno avuto il kit per le mestruazioni e possono andare a scuola (come riportato sulle schede esposte). Il punto di partenza per individuare i progetti è stato cercato delle “fratture” nella società. La prima è stata quella tra cittadini e istituzioni. Francesca Bria mi aveva raccontato come avevano creato la piattaforma della democrazia partecipativa Decidim, sviluppata dalla Città di Barcellona: è open source ed è stata coprogettata con i cittadini, non appartiene a un partito politico come la Rousseau dei grillini (sulla cui trasparenza e correttezza ha posto gravi dubbi proprio nei giorni del Salone il provvedimento del Garante della privacy, ndr).
I temi scelti individuano contesti di frattura, sei in tutto.
E rispondono a delle domande: come includere le persone nello sviluppo delle città, sviluppare soluzioni condivise per affrontare problematiche globali, creare innovazione diffusa nell’healthcare, accompagnare le donne verso una vera indipendenza, ritrovare il valore del lavoro dell’umanità senza rinnegare la tecnologia o costruire relazioni sostenibili tra culture diverse.
È stata un’occasione preziosa di mappatura sotto la chiave del co-design. Come ne è uscita l’Italia?
In Italia c’è poca collaborazione, a livello generale, e non c’è nessun tipo di sostegno per attività di attivazione collettiva. Forse questo avviene perché siamo abituati a pensare in isolamento, diversamente da quanto avviene per esempio in Olanda, dove c’è un senso del Paese molto forte e un grande senso di collaborazione che nasce, secondo gli stessi olandesi, dal fatto di essere una nazione sommersa dalle acque, in continua emergenza: solo insieme ci si può salvare. È ad Amsterdam che opera una realtà come Waag, il media lab che lavora nell’intersezione tra arte, design e tecnologia per dare ai cittadini gli strumenti per agire con coscienza nel presente tramite la tecnologia. Si tratta di una fondazione dove lavorano designer e ingegneri, sostenuta da sponsor: hanno creato un business servendo la comunità. È uno degli esempi segnalati nella sezione “cittadini e città”.
Un modello difficile da eguagliare. Quali e quante risposte hai trovato in Italia?
Alcune buone pratiche nostrane ci sono. Come il Fab Lab di OpenDot, che insieme alla fondazione Tog produce ausili per bambini disabili progettai con loro. O Funky Tomato, una filiera collettiva alimentare socialmente sostenibile - pagano i braccianti con i soldi di chi investe preventivamente nel progetto - che reinveste creando cultura sul territorio (Scambia, Basilicata e foggiano). O ancora Talking Hands, il progetto di integrazione dei richiedenti asilo attraverso la formazione artigianale e il contatto diretto con le imprese e gli abitanti di Treviso. Per me la parte più interessante del loro progetto non sono gli oggetti ma le dinamiche e i legami che si sono creati quando i ragazzi andavano a piedi per le vie della città con i loro manufatti per consegnarli, o quando andavano al parco a ricamare, tutti i giovedì, scardinando i soliti riti di quel luogo e trasformando il mood da fastidio a curiosità e interesse. Alla fine, è la dimensione umana la cosa più importante da preservare.
- Mostra:
- Design Collisions. The power of collective ideas
- Curatore:
- Laura Traldi
- Luogo:
- Cascina Cuccagna, Via Cuccagna 2 angolo via Muratori, Milano