Lo studio, in viale Tibaldi 10, a due passi dal Naviglio Pavese, è stato allestito con le novità (e la storia) della “fabbrica diffusa” di internoitaliano. In sottofondo, una colonna sonora tutta nostrana: Rino Gateano canta Gianna, Mina intona Se telefonando… Parte da “casa”, e con un pizzico di orgoglio italiano, il Salone di Giulio Iacchetti, che si dichiara emozionato quasi come la prima volta, 18 anni fa. Tante e diverse le novità, eterogenee le aziende e le tipologie dei progetti: oltre a internoitaliano, c’è l’art direction per l’azienda di maniglie dnd, il progetto “ossi/ossimori” con Emmanuel Zonta (alla Galleria Luisa Delle Piane). E poi un tavolo per la Triennale di Milano (che definisce “un atto d’amore”), una cappa per Folmec (a Eurocucina), una penna magnetica (per Nava), un set per insalata (Hands on Design) e un allestimento per il Coccio design edition (nel bookshop del Piccolo Teatro).
Giulio Iacchetti: tutto è progetto, anche parcheggiare l’auto
L’importanza di un gesto inutile per migliorarsi. Il senso della sfida di ogni Salone. E poi il sogno di rifare la Vespa. Chiacchierare con Giulio Iacchetti è sempre un piacere.
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- Elena Sommariva
- 21 aprile 2018
- Milano
Hai definito i giorni prima del Salone come “la vigilia delle vigilie”. Vale quindi sempre la pena? O, come sostengono alcuni, una volta all’anno è troppo?
Il Salone è una grande apertura verso il mondo, ma è anche una grande apertura interiore per ogni progettista: c’è una proiezione fuori e una proiezione dentro. Misurarsi con gli altri, confrontarsi, il senso della sfida, il senso di adottare un atteggiamento critico e autocritico, proprio perché tutti stanno cercando di esprimere al meglio. Per tutti questi motivi, credo che sia importante e debba continuare a esistere.
Come sempre, hai tante novità. Cominciamo dal tuo studio, dove c’è internoitaliano con un bell’allestimento di Davide Fabio Colaci. Com’è cresciuto il marchio in questi anni?
Internoitaliano per me è una spugna superporosa e permeabile alle idee altrui, ai progetti anche di altri designer. È un progetto piccolo che cresce lentamente, ma in modo organico. Non abbiamo investitori che ci danno una spinta al fulmicotone. L’importante è non farlo morire, come invece purtroppo è successo ad altri progetti analoghi. Quest’anno presentiamo una sedia in legno di Tommaso Caldera, una seduta di dimensioni ridottissime che mantiene comunque un buon livello di comfort. Insieme a una nuova seduta in alluminio disegnata da me.
La vendita online vi aiuta?
Soprattutto per i piccoli oggetti, ma penso che sia strategico il progetto contract. Vogliamo approcciarlo con la sedia di Caldera: penso a bar, ristoranti, spazi ridotti, dove però c’è bisogno di comfort.
Un altro progetto importante è quello con dnd, di cui sei art director…
La maniglia è un oggetto che ci accompagnerà sempre e ha sempre bisogno di essere interpretata. Abbiamo fatto un workshop con cinque studi di architettura (Stefano Boeri Architetti, 5+1 AA, Maurizio Varratta Architetto, 967 Architetti Associati e Cino Zucchi Architetti), pensando che fosse un’operazione di mera comunicazione e si è rivelato l’esatto contrario: comunicazione sì, ma anche ottimi prodotti, quasi pronti per entrare in catalogo. Per me è stata una grande soddisfazione lavorare con architetti che non avevano quasi mai fatto design. Tutti hanno dimostrato grande umiltà e attenzione a sviluppare il progetto con me. Ho capito che i grandi sono grandi anche in termini di disponibilità e di atteggiamento.
E poi ci sono gli “ossi/ossimori” da Luisa Delle Piane. A proposito, sono ossa o ossi?
Sono ossa, ma potrebbero appartenere a un’altra civiltà, scomparsa 100.000 anni fa. È il gesto totalmente inutile – e sai che il termine utilità mi è caro – di progettare cose che non hanno bisogno di essere progettate. Questo gioco di rimandi tra qualità della forma, bellezza del materiale (il legno), senza voler simulare la realtà – sono oggetti di legno e si vede – va a nutrire i percorsi del mio lavoro. È l’importanza di fare esattamente quello che ti gira per la testa. Sapendo che fa bene. Mi aiuta a essere meglio di quello che ero ieri.
L’elenco dei tuoi progetti al Salone è ancora lungo: una penna per Nava, un tavolo per la Triennale, i souvenir per il Coccio, una cappa per Falmec… Un risultato notevole per uno studio di dimensioni abbastanza piccole, quanti siete?
Con me ci sono due-tre persone fisse, gli altri collaboratori sono legati a progetti specifici. La dimensione dello studio è fondamentale perché voglio avere il controllo delle cose e anche per il rispetto di chi lavora con me che deve sviluppare i miei progetti e non farli al mio posto. Il progetto medio-piccolo – non lo nascondo – è quello che preferisco, perché riesco a governarlo meglio. Il tavolo della Triennale, invece, è una cosa un po’ diversa: è una dichiarazione d’amore spassionata per il luogo.
Art director, designer di prodotto e di ricerca, imprenditore: sei un progettista dalla molte facce. In quale ruolo ti riconosci di più?
Ho deciso di chiamarmi “progettista” perché tutte queste cose cadono esattamente nell’ambito di chi ama progettare: l’azienda, una direzione creativa, un oggetto, un esperimento… Sono declinazioni della stessa cosa. Come dice Beppe Finessi: “tutto è progetto”. Considero progetto anche parcheggiare la macchina o seguire le istruzioni per montare un oggetto. La differenza tra una persona e un progettista è data dall’intelligenza e dalla rapidità con cui passa all’azione dopo avere meditato.
Molti dei tuoi progetti nascono da un incontro…
È vero, e la maggior parte di questi incontri li “provoco” io. Anche questo è progetto. Per me è quasi un punto di orgoglio: la maggior parte dei lavori è frutto della mia insistenza, della mia ricerca appassionata. Non guardo il telefono aspettando che suoni: non suona!
Nel caso di Falmec, l’incontro con Luca Poser è stato agevolato da un’agenzia di comunicazione, ma normalmente non avviene così. Spero succeda con la Piaggio per il mio progetto per una nuova Vespa: l’ho pubblicato su designboom e sta avendo un seguito incredibile. È arrivata a 20.000 condivisioni sui social. Non mi era mai successo.
Forse perché la Vespa un po’ ti rappresenta…
Di sicuro abbiamo dei punti in comune: è un tassello dell’italianità, è un progetto smart. E poi non può non piacere, ho toccato delle corde sensibili. Quello che mi ha sorpreso è stata la riposta internazionale: ho capito che la Vespa è un’icona in tutto il mondo.
Comunicare se stessi non è quindi un atto di arroganza, ma una cosa necessaria.
Comunicare è un progetto. L’importante è guidare la comunicazione per non essere comunicati.