Crittologia, simulacro, lavaggio del cervello: sono temi che contribuiscono a fare della spia il personaggio misterioso e romantico che ha animato le fantasie di registi come Alfred Hitchcock, Fritz Lang, John Houston. Dal film muto ai più recenti blockbuster, il binomio cinema-spionaggio si rigenera continuamente nell’arte delle immagini in movimento, calcando spesso il corso della storia. L’esposizione “Top secret: Cinéma et Espionage” alla Cinematheque française di Parigi, a cura di Alexandra Midal e Matthieu Orléan, ne propone uno sguardo inedito. Superando i cliché, la mostra dedica uno spazio alle investigatrici che hanno preso parte alla storia del cinema sin dalle sue origini (spogliandole dallo stereotipo sessista di honey trap) e rende omaggio al ruolo cruciale del design e delle scenografie degli interni nel definire il quadro delle storie e il loro significato recondito.
Come un attore talentuoso, l’investigatore segreto sa camuffarsi e passare da una personalità all’altra. Come un abile cineasta, conosce l’arte di falsificare la realtà per raccontare una storia; sa servirsi della tecnica, per inquadrare scene nascoste e registrare suoni a distanza. Il cuore di questa comunanza è costituito da numerosi dispositivi estremamente sofisticati, attorno a cui si sviluppa una tecnofilia di cui sono testimonianza gli innumerevoli numerosi “gadget” presenti in mostra. Documenti rari e originali (ombrelli, porta sigarette, valigie, macchine fotografiche–accendino, ecc.) che nel rivelare ed esporre i complessi meccanismi spionistici celati all’interno di comuni oggetti d’uso domestico rendendo evidente come design e tecnica si insinuano nella nostra intimità quotidiana, agendo nel nostro inconscio, esercitando su di esso un controllo e trasformando le nostre vite.
Non a caso, il successo popolare del cinema di spionaggio ha raggiunto il suo apice negli anni ’60, al culmine delle tensioni della Guerra Fredda. In quell’epoca la fiction cinematografica diventa un luogo di dialogo tra Est e Ovest, in cui le superpotenze possono venire a conoscenza dei procedimenti e dei progressi tecnologici dell’avversario, esplicitando al tempo stesso le reciproche strutture ideologiche. L’universo dello spionaggio fa appello allo sguardo tanto a livello strategico quanto a livello visivo ed estetico. Nel cinema, lo spazio diegetico ha un ruolo fondamentale nell’instaurare una tensione narrativa, da cui il design non si astiene. Ampie vetrate e vaste superfici, tapparelle schiuse e luci filtrate su mobili lucidi: le scenografie dei film di spionaggio, spesso pervase da un’aura post–moderna, tracciano geometrie e linee di fuga che travolgono l’occhio dello spettatore nel dialogo dinamico tra spazio e azione.
La mostra espone preziosi bozzetti di alcuni interni iconici, tra cui quelli di Alfred Junge per L’uomo che sapeva troppo (Alfred Hitchcock, 1934), di Jean d’Eaubonne per Charade (Stanley Donen, 1963), di Lucien Aguettand per Nick Carter non perdona (Henri Decoin, 1964) e altri. Uno spazio particolare è dedicato a Ken Adam, il decoratore premio Oscar di James Bond, che ha dato il suo contribuito all’arte cinematografica con più 70 scenografie, tra cui la memorabile war room de Il Dottor Stranamore (Stanley Kubrick, 1964).
Design e tecnica (anche fantascientifica), generano sul grande schermo un connubio di cui Ipcress (Sidney J. Furie, 1965) è uno dei suoi più originali esemplari. Una delle scene di tortura è infatti ispirata dalla Knowledge Box di Ken Isaacs, in cui la spia Harry Palmer (Michael Caine) riesce a resistere a un lavaggio del cervello. Il designer aveva concepito un dispositivo spaziale e audiovisivo chiuso, frutto di una ricerca sulla pedagogia immersiva, in cui la persona al suo interno veniva bombardata di suoni e immagini proiettate sulle pareti per circa cinque minuti. Isaacs sarebbe stato contattato dalla CIA, probabilmente interessata al progetto per le operazioni di MK–Ultra, il programma segreto di controllo mentale.
L’esposizione “Top secret” è una vera e propria mostra attorno alla storia e alla geopolitica della modernità per mezzo del design dell’ambiguità e del segreto, che si conclude con uno sguardo sulle pratiche tecnologiche del XXI secolo, in cui l’arte dell’intelligence solleva questioni etiche e politiche che generano nuove forme artistiche e molte inquietudini sullo statuto della nostra realtà.