Di recente mi sono ritrovato a considerare il bel portariviste di plexiglas arancio, membro della mia famiglia dai primi anni Settanta — a essere precisi, ci sono inciampato. Dentro, le riviste più recenti datavano 2008.
Non è che io nel mentre avessi smesso di leggere giornali e riviste; era più che altro lui che, in qualche modo si era fatto indietro. Tutta la casa aveva continuato a fare cose, senza di lui.
Nelle nostre case vivono oggetti che più che dimenticati sono stati pensionati. Chiaramente dal nostro avanzare nella storia della tecnologia, con smartphone e tablet. Spesso però, più profondamente, dal cambiare del nostro modo di vederli dentro la casa, dal cambiare dello statuto di cittadinanza che abbiamo attribuito alla tecnologia dentro il nostro habitat. Un habitat che è fatto di divani, vite, presenze, assenze, convivenze, lavori che prima rendevano la casa un lontano parcheggio e adesso sempre più ne fanno un nostro indumento sovradimensionato.
Perché un conto è non ricorrere più automaticamente a telefoni fissi, calendari, agende, portapenne e posamani, ma altro discorso è riconsiderare quella smania che per un certo tempo abbiamo avuto, ad esempio, di fare della tecnologia un arredo, di compattarla e di integrarla senza posa, regalandoci indubbiamente la Minikitchen di Joe Colombo, ma più comunemente e proverbialmente tempestando le case di mobili bar.
Segue una piccola collezione di oggetti che le nostre vite hanno in qualche modo messo in un armadio, tra funzioni che restano quotidiane e nomi leggendari – come quelli di Enzo Mari, Vico Magistretti, Dieter Rams, Richard Sapper, Giotto Stoppino e Marco Zanuso – che nell’armadio non stanno affatto, anzi probabilmente lo hanno disegnato.