I visitatori entrano a Camp: Notes on Fashion, l’ampiamente pubblicizzata mostra primaverile del Costume Institute da poco inaugurata, attraverso una serie di sale a galleria dipinte di rosa saturo. La prima metà della mostra illustra l’etimologia e la storia del camp, e offre una definizione di questo elusivo termine per fornire ai visitatori un apparato contestuale per analizzarla in rapporto all’alta moda, raison d’être della mostra.
“La moda”, informa il testo sulla parete all’inizio del percorso, “è uno dei più persistenti canali della sensibilità camp”: un concetto che il curatore Andrew Bolton (insieme con Karen Van Godtsenhoven e Amanda Garfinkel) materializza per il pubblico tramite l’esposizione di esempi d’alta moda maschile e femminile realizzati nelle ‘capitali della moda’ occidentali (molti dei quali casualmente prodotti quest’anno) che, come ormai sappiamo, sono il pane quotidiano del Costume Institute. Quest’anno i curatori hanno fatto buon uso delle ampie collezioni del museo, mescolando agli indumenti sculture, dipinti, fotografie e disegni dal XVII secolo a oggi, per un totale di circa 250 pezzi.
Si entra nella mostra dal passato, alla corte reale di Versailles (ovvero il “paradiso del camp”). Ma si tratta di un passato che attraversa tutta la storia, saltando tra vari momenti storici e la moda dagli anni Ottanta a oggi: per esempio nel caso di un completo di Karl Lagerfeld per Chanel del 1987 ispirato all’abbigliamento principesco, accostato a ritratti di sartoriale splendore di Luigi XIV e Filippo I. Gli esempi della moda di questa prima sezione perciò individuano casi in cui gli stilisti si sono rifatti e ispirati a un’iconografia camp saldamente radicata nell’arte come nella moda. A collegare tra loro questi esempi la forma maschile, dalla postura del corpo secentesca (di per sé camp) all’omoerotico beau idéal neoclassico dell’Ottocento, illustrato da una fotografia di Thomas Eakins e, un secolo dopo, dal collant nudo con una foglia di fico sul pube di Vivienne Westwood, oltre che da immagini di Hal Fischer e Robert Mapplethorpe.
La colonna sonora che avvolge la mostra aggiunge un altro livello cronologico conflittuale al percorso visivo del visitatore, mescolando la raggiante interpretazione di Somewhere Over the Rainbow di Judy Garland con racconti di Rupert Everett (la cui opera teatrale è strettamente connessa a Oscar Wilde).
Camp: Notes on Fashion
La mostra del Metropolitan Museum of Art illustra etimologia e storia del camp, proponendo una definizione di questo elusivo termine per fornire ai visitatori un apparato contestuale per analizzarlo in rapporto all’alta moda.
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- Alexis Romano
- 09 maggio 2019
Wilde ha un posto centrale in un corridoio, all’ingresso del XIX secolo, allorché il camp diventa parte del linguaggio codificato delle comunità omosessuali dell’Inghilterra e dell’America settentrionale. La natura clandestina del camp si esprime spazialmente nel progetto claustrofobico della prima sezione e viene interpretata come metafora letteraria. Gli archetipi dell’aristocratico effeminato e del dandy sono rappresentati non solo con materiali visivi (tra cui fotografie della coppia di travestiti Fanny e Stella) ma con esempi letterari e altri testi come il dizionario di J. Redding Ware del 1909, il vocabolario del linguaggio comune corrente nell’epoca vittoriana. Naturalmente è Note sul camp, il saggio di Susan Sontag del 1964, a fare da inquadramento concettuale alla mostra in tema di estetica del camp, con i tratti tipici dell’ironia, dell’umorismo, della parodia, del pastiche, dell’artificio, della teatralità e dell’esagerazione. Nella galleria di Sontag il camp viene delineato strutturalmente come un insieme di definizioni, dove al testo si affiancano elementi materiali che vanno dall’autoritratto di Andy Warhol a un armadio di Emile Gallet, a una tonaca piumata di Balenciaga del 1965-66, mentre al di sopra scorre lentamente la “scrittura” del saggio dell’autrice accompagnata dal rumore della macchina da scrivere. Secondo i curatori questo testo, scritto come fu in un momento di impegno politico e di liberalismo montante, ha fatto molto per mettere in auge il camp.
Il che viene illustrato nell’ultima sala della mostra con segni visivi e sonori: la galleria rosa si trasforma in uno spazio enorme con una moltitudine di vivaci colori pastello, e il bisbiglio confidenziale diviene una “cacofonia di voci”: un riferimento tanto al numero degli stilisti rappresentati quanto alle citazioni lette ad alta voce e scritte accanto agli abiti. Queste citazioni illustrano il ‘tema’ di ciascuna delle vetrine, illuminate come gioielli, che ospitano capi di moda dagli anni Ottanta a oggi, in una varietà che spazia dalle irriverenti creazioni pop di Jeremy Scott per Moschino alle spettacolari gonne a strati di tulle di Giambattista Valli. Ordinate in due file allineate lungo le pareti, le vetrine sono fatte per abbagliare (talvolta in senso davvero letterale, a guardare i completi scintillanti e a sbuffi indossati da Liberace), come abbiamo imparato ad aspettarci dalle numerose, popolarissime esposizioni di moda create per Instagram, non ultime quelle del Costume Institute.
Per abbaglianti e sconvolgenti che siano, mancano però come sempre degli esempi di camp nella vita reale, nati al di là della bolla dell’alta moda, come il termine “cultura”, invano citato nel testo di presentazione, avrebbe implicato. E tuttavia una frase di quel testo, dove si afferma che “la mostra, più che dare risposte, vuole suscitare domande” è certamente vera. Camp: Notes on Fashion è una mostra ricca, che invita a riflettere, e andrà ben oltre le pareti del museo.
- Camp: Notes on Fashion
- Andrew Bolton, Karen Van Godtsenhoven, Amanda Garfinkel
- The Metropolitan Museum, New York
- 9 May - 8 September 2019