Barbie, il design del sogno Americano

Mentre nelle sale è uscito il primo film di Barbie con attori in carne e ossa, ripercorriamo la storia della bambola più famosa di sempre attraverso il suo design e i risvolti sociali.

Ogni tre secondi nel mondo viene venduta una Barbie. Basterebbe questo dato per comprendere la portata non soltanto economica, ma soprattutto culturale che la bambola americana esercita da oltre sessant’anni con le sue oltre 50 professioni e i centinaia di look che l'hanno elevata a icona atemporale.

La chiave dello straordinario successo commerciale di Barbie nasce da una riflessione che fa perno sulla simbiosi che design e contesto sociale dovrebbero sempre avere. Ruth Handler, moglie del co-fondatore della Mattel, Robert, ha l’intuizione di aggiungere una terza dimensione alle bambole di carta che la figlia Barbara si diverte a vestire con look sempre diversi. Un’idea frutto di un momento storico felice per gli Stati Uniti, promotori di un lifestyle esuberante figlio della crescita economica del dopoguerra. Il guardaroba degli americani si era fatto ricco, distinto, e l’aspetto estetico diventato chiave nei rapporti sociali interpersonali. Lo sottolinea il ‘Round the Clock Gift Set del 1964, in cui Barbie si presenta con un intero armadio, pensato per il viaggio, per il giorno e la sera.

Il primo modello di Barbie risale al 1959, ispirato nei tratti da pin-up americana dalla concorrente Lilli Doll

Un design per raccontare l’America

La cultura su cui si fonda la bambola è quella Wasp, cioè dell’America bianca, benestante e protestante ma anche di quella kennediana che fa proseliti nei ‘60. Tratti che, curiosamente, erano stati creati da una famiglia ebraica che, forse proprio attraverso la sua diversità, aveva da subito individuato il target di felicità idealizzata promossa dalla cultura a stelle e strisce.

Barbie, all’anagrafe Barbara Millicent Robert in omaggio al nome di battesimo della figlia degli Handler (nemmeno a dirlo, si deve a suo fratello Kenneth il nome dello storico partner Ken), trova la sua forma grazie a una figura professionale altrettanto cardine dell’identità statunitense del tempo: Jack Ryan, un laureato di Yale con un passato nell’ingegneria aerospaziale del governo Statunitense poi prestato al design del prodotto.

La rara Barbie in divisa Chicago Cubs incarna l’iconografia americana

Barbie, tra costume nazionale e diversity

La bambola che debutta il 9 marzo 1959 alla New York Toy Fair ci mette però almeno una decina d’anni ad assumere i tratti caratteristici giunti fino ai giorni nostri. Inizialmente, era reperibile sugli scaffali anche una Barbie con capelli neri dalla corta frangia da pin-up alla Betty Page, eclissata però dal successo travolgente della versione bionda. La carnagione era molto più cerulea, e le sopracciglia sottili e arcuate, come da moda del tempo. I tratti somatici ricordavano, piuttosto, quelli della bambola Lilli Doll, a sua volta basata sull’omonima striscia a fumetti tedesca pubblicata a metà Cinquanta sul giornale Bild-Zeitung. Ironia della sorte la protagonista era una prostituta. 

Altrettanto riconoscibile è il suo sorriso, anch’esso comparso solo in un secondo momento, più precisamente con il modello Malibù del 1971. È proprio questa Barbie ad avere ispirato il nome di una delle più celebri parodie-tributo del giocattolo, ovvero la Malibù Stacy nata dalla matita di Matt Gröening per i suoi Simpson e di cui, nella serie, è segretamente collezionista Smithers, il segretario di Mr. Burns.

La Malibu Stacy dei Simpson nasce come parodia-tributo alla Barbie Malibu del 1971. Foto: still da video

Americanissima – se ne ricorda quella per il Giorno del Ringraziamento con tacchino-accessorio e quella, rara, in divisa Chicago Cubs –, Barbie ha saputo proprio in virtù di ciò incarnare, non senza un certo spirito Dem, l’evoluzione dello spirito del tempo. Risale al 1968, in battuta con i proseliti delle lotte di Luther King e delle Black Panthers, Christie, il primo modello afroamericano del franchise. Bisognerà, però, aspettare il 1980 per la prima vera e propria Barbie di colore e, con essa, quella ispanica.

Anche le sue abitazioni e attività commerciali, che negli anni hanno sempre mantenuto un certo imprinting Mid-Century Modern, suggeriscono che i canoni ricercati da Barbie in materia di interior design sono quelli della suburbia e della California della classe medio-alta del dopoguerra. Ça va sans dire, tutto in tinta hot pink. Addirittura, come riportato da diverse testate, durante la realizzazione dei set per il film in live action è stata registrata nel mondo una carenza di scorte di una specifica sfumatura di vernice rosa. Barbie protagonista dello zeitgeist anche attraverso le professioni. Si ricordano l’insegnante di lingua dei segni, la veterinaria, la rapper, l’ambasciatrice Unicef e anche le sei candidature alla Casa Bianca. Addirittura conquistò la Luna nel 1965, quattro anni prima di Armstrong. Una varietà di modelli, che si spingono concettualmente oltre il solo collezionismo dei costumi, che recentemente è stata arricchita da una maggiore inclusività corporea. Oggi la linea Barbie include modelli con arti prostetici e carrozzine, a sottolineare che le disabilità possono e devono essere normalizzate sin dall’infanzia.

Dal 2021 la famiglia di Barbie si è allargata, diventando più inclusiva

Simbolo capitalista o icona queer?

Barbie è anche uno dei giocattoli che più ha nutrito una letteratura critica dedicata. Spesso accusata di essere un braccio del colonialismo culturale americano e di trasmettere un ideale di bellezza femminile dettato dal male gaze, Barbie è stata oggetto di riletture neo-marxiste che la tratteggiano oggi come icona queer. Una di queste, promossa dal sociologo e youtuber Alexander Ávila, vede nel franchise di film animati dei 2000 un forte messaggio di autodeterminazione femminile e identitaria, dal momento in cui Barbie pone al centro della sua routine il rapporto con le amiche anziché una sudditanza al compagno Ken. Lo conferma il payoff di una delle campagne pubblicitarie per il nuovo film con Margot Robbie e Ryan Gosling: “She’s everything. He’s just Ken”. La sua estetica ultrafemminile, oggi destrutturata e stratificata, è riappropriata da nuove nicchie. Come suggerisce Ávila, Barbie & the Diamond Castle oggi è puro cottagecore. Ecco che Barbie The Movie, con il suo investimento pubblicitario multimilionario, ambisce a risanare il calo di vendite in casa Mattel e di trasformare nuovamente il mondo in un “Barbie World”, spingendosi oltre il tradizionale target di giovanissimi.

Margot Robbie interpreta Barbie nel primo live action dedicato alla bambola Mattel. Foto: still da video.

Quante volte, d’altronde, abbiamo sentito pronunciare la frase “quella è una Barbie”? In una società votata all’immagine, il modello Barbie sembra essersi pienamente applicato alla realtà: non tanto nell’inseguimento del classico canone promosso dalla bambola, quanto nella ricerca di un’estetica plastica sia nei volumi dei corpi che nei lineamenti facciali. Quale è oggi, dunque, il nostro vero volto? Quello con cui ci vediamo allo specchio o quello plasmato da filtri social, tra cui quello gettonatissimo del film? Chi può dirlo con certezza. È legittimo che la bambola più celebre al mondo sia oggi, finalmente, sbarcata sul grande schermo in un live action. Una tendenza al rifiuto dell’età biologica che passa anche verso la celebrazione e il consumo di icone della propria infanzia anche da adulti. Si pensi alla linea in collaborazione con Moon Oral Beauty o alla crociera tematica promossa da Warner Bros.

Il divorzio di Barbie

Al massimo sensuale ma mai erotica, Barbie sa intercettare anche i cambiamenti in fatto di sessualità e relazioni. Alla vigilia del San Valentino 2004, con un comunicato stampa Mattel annuncia dopo oltre quarant’anni la separazione tra Barbie e Ken, per poi presentare pochi mesi dopo alla New York Toy Fair – dove tutto era nato – il nuovo compagno: Blaine Gordon, meglio noto come “Cali Guy”. La bambola incarna in pieno l’estetica surfer dei primi anni Duemila. Non un cambiamento radicale, ma un rinnovato ritorno alle origini e alle spiagge della California, reminiscente del primo Ken del 1961. Già nel 1977 Don Richard Cox annotava sul Journal of Popular Culture come la bambola fosse considerata capace di influenzare i valori sociali, non solo nella trasmissione di uno stile di vita senza dubbio idealistico, ma anche incentivando l'indipendenza femminile. Sembrano ricordarcelo modelli d’eccezione come quello dedicato alla cantante e icona queer Cher, e quello Barbie Ziggy Stardust, che celebra un’identità androgina della nostra, come citazione allo stile glam di David Bowie negli anni Settanta.

Sempre al passo con i tempi, a inizio anni Duemila Barbie sceglie (anche se per pochi anni) un nuovo compagno, Blaine

Ospiti e guardaroba illustre

Le collaborazioni sono tra le chicche più affascinanti che costellano l’universo di Barbie. Croce e delizia dei collezionisti, esse sembrano sottolineare come la validazione nell’olimpo della cultura pop passi necessariamente attraverso la bambola. La prima di queste risale al 1967, anno di grazia della Swinging London, quando la moda adolescenziale viene completamente stravolta dalla modella Twiggy, il primo volto VIP a plasmare i tratti di Barbie, che si lascia così andare a un inedito taglio corto.  I suoi vestiti, d’altronde, scandiscono le stagioni sociali, tanto che diventa possibile leggere la storia recente dell’Occidente attraverso Barbie. Dall’opulenza dei balli da favola sogni d’infanzia al pauperismo delle incarnazioni più conscious, passando per la Totally Hair Barbie del 1992, la più venduta nella storia del franchise, fino alla collaborazione con Star Wars per una folle Barbie Chewbacca.

La Totally Hair Barbie del 1992 è il modello di maggior successo del franchise ultra decennale.

Barbie e il fashion system

Non stupisce, dunque, che tantissimi stilisti siano passati da casa Mattel. Il primo, nel 1968, fu Paco Rabanne le cui creazioni metalliche e futuristiche ispirarono un modello promozionale per la Island Steel, prodotto, si dice, in soli quattro esemplari. Seguirono, poi, Oscar De La Renta, che nel 1984 diventa il primo couturier a vestire Barbie, Calvin Klein che nel 1996 confeziona un look total denim decisamente street, il modello con Yves Saint Laurent dedicato alla sua iconica Safari Jacket o la Barbie Karl Lagerfeld con le sembianze dello stilista. E ancora Christian Louboutin, Dior, Givenchy, Coach, Vera Wang. Collaborazioni che hanno portato, nel 2009 a New York, al debutto in passerella di Barbie in occasione del suo 50esimo anniversario. A queste si aggiungono le edizioni per collezionisti, impreziosite da veri e propri diamanti come la Barbie & the Diamond Castle, modello prodotto per promuovere l’omonimo film e costellato da 318 diamanti per un valore di $94.800.

Lo stilista Paco Rabanne al lavoro su un modello esclusivo per Barbie

Nel 1996 Barbie stessa diventa stilista, battendo ancora una volta ogni record. La Mattel intuisce il gap nel mercato dei videogiochi, che fino ad allora erano stati un affaire prettamente maschile. Barbie Fashion Designer, inizialmente osteggiata dai negozi, supera il milione di copie nel giro di due anni, aprendo un importante precedente per quelli definiti come “games for girls”. 
 


E se le bambine sono sempre le principesse dei loro genitori, Barbie non poteva certo esimersi dal dedicare una serie alle sovrane che hanno segnato la storia (Women of Royalty Series, 2005), tra queste la Regina Elisabetta I d’Inghilterra e Maria Antonietta. Come una vera regina, nel 1989, Barbie celebra il suo stesso Silver Jubilee, con un outfit argentato dalle spalline pronunciate. Oggi, a quasi 65 anni dalla sua nascita, Barbie continua a far parlare di sé, sempre desiderosa di essere un passo avanti, paladina indiscussa di mode e modi.

Immagine di apertura: Margot Robbie e Ryan Gosling sono i protagonisti del primo film live action dedicato a Barbie. Foto: Still da video.