Maarten Baas è ormai una presenza familiare per Domus: raramente passa una Design Week milanese senza che riusciamo ad incontrare questa talentuosa mina vagante del design olandese per scambiarci le reciproche impressioni sulla temperatura della scena, e su dove sembri dirigersi.
Ma ci rendiamo conto che con Baas possiamo andare oltre: lui, che associamo all’apparente instabilità degli arredi Clay o ai grandi orologi pubblici Real Time coi loro messaggi destabilizzanti, ha un percorso sufficientemente esteso da permettergli una distanza critica rispetto al presente, e sufficientemente recente da non consegnarlo ad un ventesimo secolo che è ormai questione di indagine storica. Con lui, oltre a commentare il momento, possiamo permetterci ragionamenti sullo stato del sistema design negli ultimi due decenni, se e come sia cambiato, se sia ancora accessibile e incisivo: una riflessione anche generazionale, quindi, di cui da diverse parti si sente arrivare la richiesta – in architettura, la Biennale di Venezia 2023 ne ha dato prova – su come le cose possano cominciare e su quali davvero siano le tanto invocate priorità.
Oggi Baas si colloca “a metà strada tra tutte le discipline come design, arte, teatro performativo: ho creato il mio palcoscenico da cui raccontare le mie storie. Non che avessi aspettative, né sogni, peraltro. Anche oggi non ho piani o strategie, idee su come voglio evolvere. Si procede sempre passo dopo passo”.
Il designer considera la serie Smoke – una fumigazione, o più propriamente un incendio con restauro, di icone del design – come il suo debutto, in quanto è stato sia il suo lavoro di laurea che una svolta a livello mondiale; tuttavia, circa un anno prima, un suo piccolo progetto era già finito nella collezione di Droog design: “Per me, come studente, quella è stata la prima volta in cui ho davvero pensato ‘Ok, questo è quello che voglio fare’; non ascoltavo più tanto i miei insegnanti – ero rimasto bloccato alla Design Academy a forza di cercare di indovinare quello che i miei insegnanti avrebbero voluto – poi ho passato due mesi a Milano per uno scambio: non ho fatto molto al Politecnico, ma prendere le distanze dall’accademia mi ha dato il coraggio necessario per quando sono tornato. Così, dopo Smoke, è arrivata la laurea, poi i mobili Clay nel 2006: per me era una collezione molto personale e vulnerabile, all’epoca nessuno faceva questo tipo di produzioni imperfette, lucide, non rifinite. Ma non è stato facile: c’era molta attenzione e pressione perché ero il ‘new kid in town’. Dovevo quindi dimostrare di avere ragione, e dovevo farlo con una collezione di mobili che volevo giocosa, ingenua e goffa”.
Il successo sarebbe poi arrivato, portando Baas da “new kid” a “cool kid”, e la serie Real Time sarebbe apparsa poco più tardi; tutte le serie vengono peraltro implementate ancora oggi, con pezzi e modelli nuovi. Ma potrebbe ancora accadere una cosa del genere agli studenti di design di oggi? “Sarebbe diverso” dice Baas "perché oggi ci sono molti più social media e quindi si sarebbe più attivi in questo senso: quando l’ho fatto io, non c’erano i social media. Ma d’altra parte, Milano era più piccola e quindi era più facile fare la differenza a Milano senza grandi budget o altri mezzi.
Dopo il primo lancio, tutte le mie altre mostre sono state ideate e pagate da me: c’era sempre una quota di rischio, ogni volta poteva essere la volta della bancarotta, quindi è stato piuttosto difficile per me inserirmi. E teniamo presente che, 20 anni fa, per me è stata una fortuna trovarmi in quel percorso, e a farlo eravamo in pochi. Oggi è difficile emergere a Milano, a meno che non si abbia mezzo milione da spendere; inoltre, la strada da percorrere sarebbe molto più quella dei social media e delle collaborazioni con i brand piuttosto che quella delle mostre personali, e vedo che alcuni giovani designer stanno investendo molto in questa modalità e stanno facendo molto bene, come Sabine Marcelis, peraltro una mia cara amica”.
Non possiamo fare a meno di chiederci se le varie scene ed epicentri del design possano ancora prosperare, persino avere un senso in un simile contesto. Baas ha una posizione chiara al riguardo: “Penso che la scena olandese sia ancora abbastanza forte. La Dutch Design Week, a Eindhoven, è sempre un punto di riferimento molto importante per molti giovani designer, molto versatile, più sperimentale e meno industriale.
E le scene hanno ancora un senso: ero molto curioso di sapere se sarebbe cambiato qualcosa dopo la pandemia, ma ho la sensazione che tutto sia tornato esattamente al punto di partenza. Prendiamo Milano, per esempio: la regola non scritta secondo cui tutti devono venire lì è sopravvissuta, e penso che sia bello, perché è bello essere sicuri che tutti si incontreranno lì, abbiamo bisogno di vederci fisicamente, di fare esperienza l’uno dell’altro.
Se c’è una cosa che è cambiata, invece, è quanto tutto ciò sia diventato grande e quanto sia difficile emergere, un meccanismo che toglie di mezzo tutti i temerari, e i giovani talenti che non abbiano già alle spalle un’industria”.
E quando si tratta di industria, emerge la quintessenza del “Baas pensiero” sul design: “A volte”, dice, “le aziende mi vengono a cercare per realizzare un nuovo prodotto, ma a me non interessa più di tanto: per lo più progetto qualcosa solo se ne ho bisogno io stesso. E soprattutto mi piacciono progetti che siano ideati da me, altrimenti non li farei”. Il designer olandese ha posizionato la sua pratica come riferimento e allo stesso tempo controparte critica verso l’industria, verso i suoi temi e retoriche mainstream, come il discorso della sostenibilità fatto nei termini in cui l’industria stessa lo può esprimere.
Penso di far parte di quello stesso sistema che però al contempo io critico. Così ho detto che volevo un jet privato, come simbolo del lusso e del consumismo in contrasto con questi materiali riciclati, un paradosso. E loro hanno avuto il coraggio di lasciarmelo fare.
Maarten Baas
Per la Milano Design Week 2023, la sua collaborazione con un marchio di denim streetwear è stata al tempo stesso un’innovazione e una provocazione, con una collezione di armadi realizzati in denim riciclato, ma anche un jet privato in scala 1:1, realizzato con lo stesso materiale e piazzato al centro di una chiesa barocca: “Mi hanno chiesto di lavorare sui loro materiali dandomi carta bianca, volevano solo che realizzassi qualcosa. Il materiale aveva un buon aspetto e un buon percorso di produzione e ho potuto realizzare dei cabinets che riciclavano sia il materiale sia la forma stessa dei jeans. Ma c’era un grande elefante nella stanza che sapevamo aver poco a che vedere con la sostenibilità (la presenza di tutti noi in un solo luogo per una settimana), e io non voglio essere usato come il classico designer portatore di generici messaggi green, lavoro su questa dualità che è dentro le persone come artista, ho sempre giocato un po’ con il rapporto di amore-odio che ho con il consumismo e con scene come quella milanese: penso di far parte di quello stesso sistema che però al contempo io critico. Così ho detto che volevo un jet privato, come simbolo del lusso e del consumismo in contrasto con questi materiali riciclati, un paradosso. E loro hanno avuto il coraggio di lasciarmelo fare. Come marchio, invece di comportarti come se stessi salvando il mondo, forse dovresti solo presentare il tuo dilemma, farlo con coraggio: sappiamo che ci stai provando e che sei sulla buona strada, ma le persone ormai conoscono il gioco. Questa secondo me è una dichiarazione molto più forte e onesta di qualsiasi ennesimo prodotto riciclato”.
È una questione di etica del lavoro, che dice molto sulle condizioni contemporanee e sulle posizioni che si stanno prendendo sempre più nei confronti del lavoro stesso. Come abbiamo fatto con l’architetto giapponese Kengo Kuma, abbiamo voluto saperne di più su come e soprattutto dove lavora un designer: “Non ho nemmeno un ufficio”, ha detto Baas, “vado in giro con il mio portatile, lavorando da casa o da un magazzino dove concentro alcune attività – ma il mio ruolo è davvero quello di passare da una cosa all’altra, a volte è lavoro fisico, a volte è solo parlare con un cliente o stare da qualche parte con il mio portatile o il mio telefono. Non esiste un luogo o una giornata tipica, un modo tipico di lavorare: c’è versatilità nel fare un po’ di questo, un po’ di quello e poi collegare il tutto finché non si arriva da qualche parte”.
In questo scenario, tutti i diversi lavori a cui Baas sta lavorando, mostre, commissioni private e opere pubbliche, esprimono questa molteplicità e giocosa versatilità nell’affrontare anche sfide difficili, caratterizzate da un alto valore intellettuale. È successo di recente con il progetto Intellectual Heritage, per la facciata della biblioteca di Utrecht: “Mi hanno commissionato un lavoro per un edificio monumentale nel mezzo di una città dalla doppia identità, molto severa e tranquilla da un lato, animata da studenti universitari dall’altro. Stesso carattere per la location del progetto: una piazza sempre utilizzata per feste e bevute, trafficata da biciclette e quant’altro, su cui invece si affaccia la biblioteca, con i suoi cliché di silenzio e concentrazione. E mi piaceva giocare con questo contrasto, così ho attaccato alla facciata dei neon alla Las Vegas, fatti di espressioni e parole letterarie di ogni tipo, o di riferimenti a scrittori famosi, filosofi, testi latini; quasi una cacofonia che ha però alla fine ha un significato”, come la parola “adesso”, che viene ripetuta ossessivamente e che è anche il titolo di un poema olandese del sedicesimo secolo.
Si tratta di un posizionamento personale che prende forma filtrando tutti gli stimoli e le ispirazioni contestuali provenienti dal presente: per questo non eravamo troppo interessati a chiedere a Baas quali fossero i suoi “riferimenti” in modo convenzionale, e lui in effetti ci ha dato conferma: “È iniziato tutto con Juergen Bey – Droog design – un insegnante di cui mi piaceva molto il lavoro, il discorso e il pensiero. Poi però, da allora, ci sono stati vari artisti e designer, ma anche pezzi e lavori sparsi, che ho seguito. Non c’è nessuno che io segua nello specifico: il legame tra i lavori che mi piacciono e quelli che faccio io, effettivamente, si trova nella combinazione di una certa leggerezza e di altri livelli d’accesso più profondi. Spesso compro, per me, opere di altri artisti, e spesso dentro hanno dell’umorismo, non posso farne a meno. È un linguaggio accessibile, non mi piace l’arte astratta”.
La musica, a questo punto? “Tom Waits. La mia musica preferita e anche il mio personaggio preferito nella musica, con i diversi strati del suo lavoro”.