Tokyo, 1950. È un centro commerciale, simbolo globale del nuovo stile di vita americano, a fare da teatro al ritorno in Giappone dopo quasi vent’anni di assenza di Isamu Noguchi, invitato ad allestire una personale presso il Mitsukoshi Department Store, impresa secolare fondata già nella seconda metà del 1600.
Nato a Los Angeles nel 1904, figlio di Léonie Gilmour, giornalista di Brooklyn di discendenza irlandese e del poeta giapponese Yonejiro Noguchi, Isamu era cresciuto in Giappone, prima di fare ritorno in America a tredici anni per gli studi superiori. Negli anni seguenti Noguchi avrebbe saputo affermarsi come uno dei principali nomi della scultura americana e internazionale.
Dopo un tirocinio presso lo studio parigino di Constantin Brâncuși, Noguchi aveva frequentato Frida Khalo e Diego Rivera in Messico, realizzandovi una scultura che ne celebrava la storia rivoluzionaria, aveva progettato scenografie teatrali per Martha Graham, intrapreso collaborazioni con artisti del calibro di John Cage, disegnato arredi per Herman Miller e sperimentato con la bakelite. Nel 1946 era poi sbarcato – assieme a nomi come Saul Steinberg – al Moma con “Fourteen Americans”, collettiva che raggruppava la crema della nuova arte statunitense.
A soli cinque anni dai bombardamenti americani su Hiroshima, le creazioni di Noguchi esposte nel centro commerciale di Tokyo ne mostrano l’impatto ancora vivissimo sulla sua sensibilità artistica. Un insieme di oggetti e sculture incarnano, con le forme sinuose a cui Noguchi ha abituato, corpi mutilati e volti deformati. Opere legate dalla visione di un’arte per una società post-atomica, concepita per essere osservata dallo spazio, da Marte. Un tema che Noguchi già aveva esplorato nel 1947 con il suo bozzetto per Sculpture to be seen from Mars, primordiale (e mai realizzato) concept per un memoriale per le vittime di Hiroshima.
In Noguchi si ritrovano le stesse contraddizioni che solcano il Giappone post-bellico, messo in ginocchio dagli Stati Uniti ma così incline ad assorbirne lo stile di vita all’indomani della ricostruzione. La sua frustrazione di fronte all’annichilimento lasciato dalla devastazione di Hiroshima convive con il senso di colpa che ne segna la coscienza di cittadino statunitense.
È Kenzo Tange, uno tra i volti di riferimento della nuova architettura giapponese, a apprezzarne la sensibilità emersa dalla mostra del Mitsukoshi Department Store e a farne il nome a Shinzo Hamai, sindaco di Hiroshima che sta promuovendo la ricostruzione della città.
A un anno dalla mostra, Tange invita Noguchi a visitare i resti devastati di Hiroshima, dove l’architetto è al lavoro per la progettazione del Peace Memorial Park. Un luogo verso cui Noguchi si dice “attratto, come lo sono molti Americani, da un senso di colpa”. Sul sito Noguchi sembra, dunque, trovare il Giappone che fu, quell’arte antica che va cercando per il mondo – dalla pittura cinese ai marmi italiani – per trasformarla in opere capaci di parlare al presente, se non addirittura al futuro.
Questo è uno dei binari su cui il designer si muove per l’opera che Tange e Hamai gli commissionano: un cenotafio da erigersi al centro del Peace Memorial Park, sul punto esatto della detonazione della prima bomba a idrogeno – grottescamente denominata Little Boy.
Noguchi, a cui è stato concesso l’utilizzo dello studio di Tange all’interno dell’Università di Tokyo, pensa a un imponente ma armonioso arco di quattro metri in granito nero, ispirato tanto dalle antiche sculture funerarie giapponesi quanto dal guscio ricurvo dell’ordigno. I sostegni sono concepiti così da proseguire sotto la superficie del sito, congiungendosi a una cripta sotterranea contenete un ricettacolo con i nomi delle vittime, per un progetto dall’altezza complessiva di 14 metri.
A una settimana dall’inizio dei lavori, però, l’amministrazione locale ci ripensa: la proposta di Noguchi viene rifiutata. La sensibilità politica, più che quella artistica, sembra avere la meglio. Affidare a un cittadino americano un'opera dal così grande valore simbolico, a poco più di sei anni dalle bombe su Hiroshima e Nagasaki, sembra una decisione fuori luogo.
La progettazione del cenotafio passa, così, nelle mani di Tange, la cui scultura per assurdo è l'elemento meno politico dell’intero progetto – composto da un museo a cui sono affiancate un Centro per la Comunità e un albergo. Il memoriale, pur pregevole nella forma che evoca la copertura delle abitazioni preistoriche haniwa, sembra mancare di contenuti. Inevitabile, inoltre, notarne la somiglianza all’idea di Noguchi, dettata tanto dal rispetto di Tange per il collega quanto dagli stringenti limiti temporali – una settimana – concessi per rinnovare il progetto.
D’altronde, come osservato dall'architetto e autore australiano Robin Boyd, Tange – un architetto, non uno scultore – aveva ricercato un approccio più funzionale che estetico nella realizzazione del Museo della Pace. L’opera, scrive Boyd, non fu tanto concepita “come una scultura commemorativa, bensì come un’architettura che, in quanto tale, avesse una funzione e fosse, quindi, usabile, e per di più che non rimanesse estranea, nella sua espressione, all’enfasi emotiva inerente al tema stesso per cui l’opera andava progettata.”
Nel 1982, a trent’anni dalla mancata occasione di Hiroshima, Noguchi ritorna sul suo cenotafio come su altre opere del tempo che indagano il tema della bomba a idrogeno. L’idea è quella di ripensarlo – con il nuovo nome di Memorial to the Atomic Dead – negli Stati Uniti, nella città di Washington, la capitale, offrendo così una valenza politica nuova e decisamente più provocatoria alla sua opera. Ancora una volta, però, il concept rimane alla fase di progettazione, di cui oggi abbiamo testimonianza sotto forma di un modello ottenuto dall’assemblamento di più blocchi di granito brasiliano.
Già ai tempi della Seconda Guerra Mondiale Noguchi aveva provato a dialogare con il governo statunitense per lo sviluppo di una coscienza artistico-politica sull’asse americano-giapponese senza però riscuotere successo. Quando negli Stati Uniti, in seguito a Pearl Harbor, furono istituiti campi di prigionia per emigrati giapponesi, Noguchi – che pur era cittadino americano – decise di entrarvici di spontanea volontà, trascorrendo sei mesi nel Colorado River Relocation Center in Arizona. In questo lasso di tempo il designer lavorò alla stesura di un progetto che proponeva la realizzazione di laboratori artistici per i detenuti, oltre all’allestimento di zoo, giardini e aree ricreative che conducessero a una prigionia formativa e creativa. L’idea in cui lo scultore riponeva grande fiducia fu, senza sorprese, rispedita al mittente e Noguchi rilasciato dal campo.
Le barriere per i due ponti realizzati nel 1951 che collegano il sito del memoriale al centro della città sono le uniche prove tangibili che, a distanza di settant'anni dalla commissione progetto, rimangono di Noguchi a Hiroshima.
Oggi il modellino del memoriale, assieme a carteggi, fotografie e a una selezione curata delle opere dello scultore e artista Americano, dopo essere state esposte al Barbican di Londra per un’imponente retrospettiva, possono essere visitate al Noguchi Museum di New York, ex casa dell’artista e designer nel Queens, oggi museo che ospita la sua più grande collezione permanente.
Immagine di apertura: modellino per Memorial to the Atomic Dead (1952, 1982), dalla mostra “Noguchi Memorial to the Atomic Dead”, Isamu Noguchi Museum, New York. Foto: Nicholas-Knight.