I progettisti di oggi devono di avere il coraggio di guardare avanti e di essere radicali: in questa intervista il socio fondatore di Memphis racconta a Domus del suo rapporto con Sottsass e Mendini, e perché sta gettando lo sguardo lontano da Milano, verso Shanghai. Abbiamo incontrato Aldo Cibic (1955) durante una retrospettiva del suo lavoro dal titolo “Aesthetics of vitality: la forma della felicità” presso l’hotel da lui progettato in via Savona, a Milano. L'architetto e designer ci ha raccontato come Memphis ha formato la sua visione, e perchè ha deciso di vivere fra Milano e Shanghai.
“Siamo stati corrotti dal formalismo”: Aldo Cibic
I progettisti devono avere il coraggio di guardare avanti e di essere radicali, dice il membro fondatore di Memphis a Domus in un’intervista sul suo rapporto con Sottsass e Mendini, e del perché sta gettando lo sguardo lontano da Milano, verso Shanghai.
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- Giulia Ricci
- 08 maggio 2019
- Milano
Cibic ha dei precedenti con Domus, lavorava infatti presso lo studio di Ettore Sottsass quando Alessandro Mendini ha commissionato la progettazione grafica della rivista allo studio milanese. Poco prima della sua morte, Mendini ha selezionato Cibic e il suo studio per il supplemento del 100+ best architecture firms 2019 di Domus: “Sono felice di essere stato incluso in questa selezione, sono stato scelto da Mendini", dice Cibic. “L’ho capito il giorno in cui è mancato e non ho avuto il tempo di ringraziarlo. È stato grande, l’unico degli ex direttori a fare ‘outing’ dichiarando la sua selezione”. Cibic vede la decisione di Domus di nominare Winy Maas come attuale guest editor per il 2019 come segno che la rivista continua a guardare avanti: "Penso che scegliere un olandese per il progetto 10x10x10 sia stata una grande idea. Loro [Maas e il suo team] mi sembrano avere un atteggiamento più deciso nei confronti dei tempi in cui viviamo. Il loro focus è l’azione, ed è questo che mi interessa ora”.
Foto Matteo Piazza
Foto Matteo Piazza
Foto Santi Caleca
Foto Santi Caleca
Foto Santi Caleca
Foto Santi Caleca
Foto Filippo Romano
Foto Martina Facci. Courtesy Moret Archive
Foto Stefano Babic
Oggi di cosa si sta occupando?
Vivo fra Italia e Cina. Mi sto occupando da un lato della dimensione poetica e, dall’altro, dell’aspetto sociale della progettazione. L’Italia ora non la capacità di visione e di azione mentre la Cina è l’unico posto al mondo che ha la massa critica per poter generare un modello, dove si può sperimentare sul sociale.
La Cina è l’unico posto al mondo che ha la massa critica per poter generare un modello
Di questo aspetto ti sei occupato già con il tuo primo progetto autoprodotto, la collezione Standard (1991), come è evoluta la ricerca?
Standard era un progetto a metà fra De Padova e Ikea. Più tardi ho realizzato “New Stories, New Design”, per la IX Biennale di Architettura di Venezia (2004), nel Padiglione Italia di Mirko Zardini. L’oggetto della mostra era il design dei servizi, di cui abbiamo iniziato a parlare a Domus nel 1995, uscito poi nel 2007 nelle forme di business che conosciamo, con servizi come Uber o AirBnb. Con questa mostra abbiamo indagato da un lato quali sono le attività di una società, dall’altra cos’è una comunità e quali sono le dinamiche di vita che la caratterizzano.
Quali credi siano le sfide future delle discipline di cui si occupa?
L’architettura e il design oggi devono avere l’intelligenza, la curiosità e l’umiltà di decidere come mettersi assieme di fronte alle grandi criticità: l’environment, la tecnologia e la società, che alla fine si intrecciano. Bisogna guardare al nostro futuro, altrimenti rischiamo di diventare manieristi. Come vedo accadere oggi alla Milano Design Week: non c’è nessun segno di vita, l’unica cosa che ho visto muoversi sono state le animazioni sugli inviti!
Molto di ciò che si vede oggi ripropone un’estetica Memphis. Cosa ne pensi?
La Memphis oggi non sarebbe più la Memphis, sarebbe un’altra cosa. Greta Thunberg, la giovane attivista svedese, dice “non è un problema di speranze ma di azioni”. Se vogliamo agire, dobbiamo agire. Dobbiamo inventarci come metterci assieme per essere efficaci. Siamo viziati dal formalismo, si annunciano grandi temi e poi non si capisce quale sia la speranza, quale sia il messaggio che un progetto produce. Penso ci voglia più coraggio, bisognerebbe essere più radicali. Non lo dico perché sento di esserlo ma vorrei esserlo.
E questo coraggio c’era nella Memphis?
Quello che il movimento – tra Sottsass e Mendini – mi ha insegnato è l’atteggiamento verso la vita: l’atteggiamento di chi non crede in una disciplina in quanto tale ma vede un orizzonte molto più ampio. Per esempio, Sottsass non si era formato semplicemente come disegnatore. Infatti, i disegni e i lavori realizzati all’inizio della sua carriera raccontano la storia che gli ha permesso di generare di interessante. Quello che si fa è il risultato di un viaggio, in senso quasi spirituale o antropologico (prima di quello professionale, ndr).
Siamo viziati dal formalismo. Penso ci voglia più coraggio, bisognerebbe essere più radicali
Proprio oggi ascoltavo questa intervista in cui Sottsass si scagliava contro il marketing come l’espressione dell’iper-competitività del mondo a lui contemporaneo. Mi chiedevo, come hai visto cambiare il sistema che ruota attorno al design?
Dal ‘90 in poi è tutto marketing, è il marketing che fa il designer oggi. Il sistema è iper-produttivo: vedi gli stessi pezzi fatti da designer diversi, realizzati da aziende diverse, che spesso però finiscono per fare le stesse cose. Se istituzioni e società diventano ostaggio del marketing oggi, è dovuto all’assenza di visione, di futuro. Si guarda indietro, non avanti.
Come combatti questo sistema?
Per fortuna o per destino non sono mai stato parte di questo sistema, quello che vedete in questa retrospettiva lo dimostra: quasi nessuno di questi pezzi è sul mercato. Purtroppo non ho nemmeno goduto dei frutti economici, proprio non è parte della mia storia! La mostra è un percorso molto intimo rispetto agli oggetti che ho fatto e che amo. È per me il modo di raccontare la genesi dei miei oggetti.
La mostra è un percorso molto intimo rispetto agli oggetti che ho fatto e che amo
E dove vedi invece dei segnali positivi?
A Shanghai c’è movimento, ha un’intensità tale che potrebbe somigliare alla Milano degli anni Ottanta. C’è un interesse sul sociale e un grandissimo movimento di pensiero, di persone che hanno voglia di fare. Ora Milano purtroppo è un ‘clubbino’ di persone che invece di confrontarsi con il mondo si confronta un po’ troppo con sé stesso. Mendini è stata forse l’ultima persona interessante di quel tipo, aveva una visione molto più ampia e non troppo interessata: che tu fossi famoso o meno, per lui era importante la qualità del progetto. Invece ho la sensazione che ora conti molto l’appartenenza.
Immagine di apertura: Aldo Cibic, Pocket Landscape, Anfiteatro, schizzo