Il produttore di autovetture di lusso Lexus ha lanciato il concorso di design che porta il suo nome nel 2013. Nel corso degli anni questo concorso internazionale ha ottenuto vaste attenzioni con le sue mostre immersive. Tuttavia, dietro le quinte, lo scopo di fondo dell’iniziativa è dare sostegno a progetti a prova di futuro che affrontino i problemi più pressanti della società, che si tratti del degrado dell’ambiente oppure dell’attenuazione dell’esperienza virtuale. Spesso le candidature vincitrici vanno oltre le antiche tecniche artigianali e l’applicazione di nuove tecnologie.
Ogni dicembre una giuria di chiara fama esamina migliaia di candidature tra cui sceglie solo pochi progetti finalisti. La giuria di quest’anno comprende il famoso architetto David Adjaye, il celebre designer e docente John Maeda, la grande curatrice Paola Antonelli e il presidente della Lexus International Yoshihiro Sawa. Ai nuovi talenti che elaborano le idee prescelte vengono assegnati 21.000 euro, con quattro mesi di tempo e l’aiuto di mentori di primo piano nel settore produttivo per sviluppare prototipi delle loro idee. Il programma annuale culmina in una mostra allestita in aprile durante il Salone del Mobile di Milano. Il vincitore, scelto dalla giuria in occasione di questa manifestazione, ottiene ulteriore sostegno finanziario e professionale, nella prospettiva potenziale di portare il suo progetto sul mercato.
Fedele al suo compito, il Lexus Design Award di quest’anno ruota intorno al tema Design for a Better Tomorrow, “Il progetto per un domani migliore”. È stato chiesto a progettisti di tutto il mondo di mettere alla prova questo concetto con soluzioni che vadano oltre gli ordinari principi di forma e funzione. Tra i sei progetti finalisti di quest’anno ci sono idee che riguardano i disastri naturali, le malattie, i rifiuti, l’inquinamento, l’energia e la creazione di nuovi materiali.
Nel corso di una sessione preparatoria, che si è tenuta a metà gennaio nella sede del centro newyorchese Intersect by Lexus, i mentori Jaime Hayon, Jessica Rosenkrantz, Shohei Shigematsu e Sebastian Wrong hanno fatto conoscenza con i finalisti offrendo loro un primo indirizzo. In questa occasione abbiamo parlato con Shohei Shigematsu, socio di OMA e direttore della sua sede newyorchese, del suo ruolo nel concorso di quest’anno e, in prospettiva, del suo punto di vista su di esso.
Fino a che punto sei impegnato nel concorso di quest’anno? Che peso hai nella sua formula?
Mi è stato chiesto, come mentore, di mettere a disposizione la mia competenza e di aiutare i sei finalisti a sviluppare ulteriormente i loro progetti. Il mio interesse a partecipare nasce dall’idea di lavoro in collaborazione: un metodo che rivendico spesso nella mia veste di docente. In passato la formazione, e in particolare quella all’architettura, si concentrava sulla ripetizione e sulla diffusione di saperi fissi. Nel mondo di oggi, in rapido cambiamento, questa impostazione non è più realizzabile. Bisogna sviluppare un riflesso automatico a entrare in situazioni sconosciute o misteriose.
Tutti partono dall’osservazione generale del modo in cui le cose stanno cambiando. Può essere un’idea molto astratta di cui discorrere, ma in architettura occorrono risultati specifici. Molto di quel che facciamo a OMA lavora su questo dualismo: tradurre l’ipotetico in una cosa concreta. Quel che voglio trasmettere ai finalisti è che non contano solo i loro progetti, ma importa anche la loro consapevolezza dell’attuale situazione del mondo.
In che rapporto è questo obiettivo con il tema di quest’anno: “Il progetto per un domani migliore”?
Credo che questo genere di terminologia certe volte crei un problema, perché suggerisce che i designer devono affrontare e risolvere da sé alcuni dei nostri maggiori problemi in vece che realizzare miglioramenti di scala minore, più gestibili. Viviamo in una cultura che spinge i progettisti a farsi sempre carico di un programma che salvi il mondo. Sotto molti aspetti è una richiesta irrealistica. Per me una nuova idea progettuale, per essere efficace, non deve necessariamente essere rivoluzionaria.
A paragone del product design e di altre aree del progetto, l’architettura può sembrare lenta, mentre i miglioramenti si ottengono in un arco di tempo superiore. Con Google e altre aziende tecnologiche come termine di paragone si crede che l’unica misura del successo e dell’innovazione sia passare da zero a un milione in poco tempo. Ma in realtà non è l’unico modo di innescare il cambiamento.
Come riesci a usare la tua competenza in architettura per indirizzare i vari progetti finalisti che, nell’insieme, rappresentano una gamma vasta di discipline e di applicazioni?
A OMA abbiamo spesso a che fare con scale differenti. Che si tratti di una collezione d’arredamento, di exhibition design o di una nuova sala da concerto, il processo di concettualizzazione e di realizzazione è essenzialmente il medesimo. Si può partire dall’individuazione dei bisogni mondiali da soddisfare, ma l’incarico può riguardare per esempio una normale palla da ginnastica. A prescindere da quel particolare formato occorre chiedersi con rigore che cosa sia, che cosa faccia e come si possa usare per rispondere all’obiettivo di partenza. Non è tanto questione di scala quanto di vedere dove c’è spazio per innescare un progresso. Quello che vorrei condividere con i finalisti è la nozione di buona comunicazione. Devono essere sicuri che quel che vogliono comunicare sia il più chiaro possibile. La loro capacità di usare la grafica e altri strumenti deve essere incisiva e solida.
Quest’anno il Lexus Design Award ha inaugurato una procedura differente. Tutti i mentori assistono tutti i membri del gruppo. Parlaci della tua interazione e della tua collaborazione con gli altri mentori.
Ci siamo riuniti oggi per la prima volta. Al mattino ognuno di noi ha presentato un intervento sul suo lavoro e sulla sua concezione del progetto. Quel che ho capito è che, anche se proveniamo da culture e discipline creative differenti, condividiamo gli stessi principi, come la qualità e l’attenzione ai particolari. La nuova procedura ha vantaggi e svantaggi. Da un lato, se tutti noi offriamo osservazioni ampiamente divergenti sui progetti, i finalisti possono rimanerne confusi. Ma dall’altro un fruttuoso disaccordo su quale sia la miglior linea d’azione potrebbe anche far nascere risultati migliori. Come in ogni collaborazione ciò deve discendere da una dialogo aperto con mentori differenti.
Dopo le sessioni di indirizzo individuali di oggi come continuerete a condurre il dialogo con i vari finalisti, durante la preparazione per il Salone del Mobile?
Spero che i finalisti sfrutteranno l’occasione di dialogare con tutti e quattro i mentori. Dopo questa giornata possiamo comunicare con una chat video. In un certo senso tutti abbiamo assegnato ai finalisti dei compiti a casa ma, secondo me, quel che conta è vedere qualche forma di progresso. Credo sia fondamentale che i finalisti non si accontentino di essere stati selezionati in quanto tali. Spero che aderiscano al tema di quest’anno e che usino i loro progetti per dire qualcosa che si inserisca in un contesto più ampio. Altrimenti i progetti potrebbero facilmente essere distorti e visti come innovazioni fini a se stesse. Se davvero credono in un domani migliore dovrebbero portare i loro progetti oltre il concorso e lavorare a fondo per realizzarli nella società. Sotto questo aspetto il mio ruolo sta nello spingerli a mettersi alla prova.
In cima: Green Blast Jet Energy, del designer russo Dmitriy Balashov, è una turbina che durante il decollo raccoglie e converte lo scarico dei jet in energia