Sono trascorsi 100 anni esatti dalla nascita del designer. La mostra curata da Patricia Urquiola con Federica Sala alla Triennale di Milano non vuole però essere né celebrativa, né rigorosamente cronologica. Il percorso si costruisce liberamente attorno a 20 cluster tematici, che sono parti della mente creativa di Achille Castiglioni. È quindi una mappa concettuale, una geografia dove poter seguire i pensieri di Achille, dove – spiega Urquiola – “le sue idee sono molto libere e si muovono in modo sciolto: abbiamo creato, quindi, una mappa di macro e micro concetti ricorrenti nei suoi progetti, disposti nello spazio senza un assetto gerarchico o lineare, ma in forma rizomatica. Come un rizoma il ‘pensiero Castiglioni’ rimane nel mezzo, tra le cose, perennemente connesso”.
Sorprendere attraverso i progetti, ammiccare con ironia sul quotidiano. Achille Castiglioni alla Triennale
Patricia Urquiola – allieva di Castiglioni al Politecnico – progetta una mostra densa di materiali, ma sempre leggerissima e sempre divertente, in un dialogo perfetto con il Maestro.
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- Francesca Acerboni
- 19 ottobre 2018
- Milano
Foto Matteo Cirenei
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Due piani della Triennale e 200 opere esposte, immergono il visitatore nella natura viva del lavoro e dei progetti di Achille Castiglioni – fino al 1968 realizzati insieme ai fratelli Livio e Pier Giacomo. Progetti che parlano di progresso e innovazione, attraverso una visione sempre fresca e atemporale. Come sottolinea Urquiola, “il suo pensiero guarda più lontano, i suoi progetti superano il tempo, le sue parole sono tracce da seguire. Oggi. Sempre. All’infinito”.
E proprio Patricia Urquiola – che è stata allieva di Castiglioni al Politecnico – allestisce una mostra densa di materiali e progetti, ma sempre leggerissima e sempre divertente, in un dialogo perfetto con il Maestro. Stessa eredità progettuale, stessa ironia. Un dialogo che trova un sorprendente e immaginifico punto d’incontro nell’installazione TraParentesi: come 100 candeline di compleanno, i 100 modelli della lampada Parentesi s’illuminano e creano una foresta di sensazioni sonore – i movimenti dei visitatori che attraversano lo spazio attivano sensori che riproducono ora suoni di materiali, ora la voce stessa di Achille che racconta. A ricordarci che un materiale si riconosce e si definisce anche dal suono che emette toccandolo e picchiettandolo, da come risuona quando cade o si rompe. Al buio di questa sala, c’è una sintesi profonda di Castiglioni, quel “sapersi prendere in giro come faceva Jacques Tati”: non prendersi troppo sul serio, anche se si lavora seriamente.
A partire dal primo cluster “L’è un gran Milan”, che contiene i progetti architettonici più importanti – realizzati e non –, ponendo l’accento sulla stretta relazione umana e professionale di Castiglioni con la sua città, la mostra si sviluppa in un susseguirsi di sale da visitare in ordine oppure random, seguendo un percorso aperto e ricco di rimandi, di andate e ritorni, di curiosità, di stupore e stimoli infiniti. Vi sono i progetti d’interni, ristoranti e showroom che giocano su diversi piani dello spazio (Dislivelli); allestimenti dove la ripetizione diventa un tema a sé stante (Reiterare); progetti legati alla modernizzazione delle comunicazioni, attraverso apparecchi telefonici, accessori e modalità di utilizzo (Se telefonando); esperimenti e prodotti legati allo specchio e al riflesso, all’immagine a al suo doppio; i progetti più leggeri e spiritosi, dove prevale “la gioia della scoperta attraverso oggetti sinceri e felici, che vibrano della sua genuina ironia” (Morfismi); la ricerca della forma come “bella funzione”, che Castiglioni studia in tantissimi oggetti di uso domestico e quotidiano (Serviti e serventi); il divertimento puro e garbato di smontare-rimontare-raccogliere-ripescare accumulare (Playfulness), con l’irresistibile progetto di cappello formato su uno stampo da budino; l’interesse per il vuoto, non come mancanza o negazione, ma come campo di indagine, per generare pause, sorpresa, scandire il ritmo degli spazi (Vuoto); i progetti di allestimento e di comunicazione per le fiere, specialmente le mostre nazionali della RAI, realizzate in sinergia con graphic designer di talento come Bruno Munari, Enzo Mari, Max Huber, Pino Tovaglia, Albe Steiner (Comunicare); la tensione verso l’oggetto semplice e minimo “come corrispondenza tra regola tecnologica e aspetto formale”, ma senza alcun dogmatismo (Keep it simple): i mobili che si piegano, piroettano, le lampade a saliscendi che prendono vita nello spazio che occupano, introducendo “nuovi livelli di complessità, in cui l’utilizzatore è direttamente coinvolto” (In Moto).
Con grazia rivoluzionaria e intuizioni geniali, Castiglioni ha sempre lavorato sulla semplice complessità delle cose. Sempre immune dall’ambizione di voler lasciare un segno, ma solamente interessato a “voler instaurare uno scambio, anche piccolo con l’ignoto personaggio che userà l’oggetto da voi progettato”. Come il molto amato interruttore Rompitratta – disegnato con Pier Giacomo nel 1968 –, oggetto semplice, economico, funzionale, anonimo per i più. Così doveva essere il design secondo Castiglioni. Un insegnamento, questo, che dalle aule del Politecnico su cui si sono formate generazioni di designer, risulta tuttora non banale e ancora più attuale nel presente, dove spesso prendono il sopravvento il brand, il marchio o il nome del designer più che la qualità prima e il significato intrinseco di un oggetto.
- A Castiglioni
- fino al 20 gennaio 2019
- Patricia Urquiola, con Federica Sala
- Triennale di Milano
- viale Alemagna 6, Milano