“Tutti vogliono possedere la fine del mondo”. Comincia così Zero K, l’ultimo romanzo di Don DeLillo, con il quale lo scrittore americano disegna ancora una volta uno scenario della nostra contemporaneità in bilico tra reale e futuro molto prossimo.
Sullo schermo scorre una serie d’immagini di guerre, carestie, migrazioni, catastrofi naturali, una sequenza di mondi manipolati da scienziati e futurologi ci introducono nell’epoca dell’Antropocene. È il tempo in cui l’uomo prova a dominare non solo l’ambiente, ma anche la propria vita attraverso la criogenesi, una pratica medica di congelamento e conservazione del corpo umano. Si tratta di un tentativo di fuga, di controllo di una fine inevitabile, ormai alle porte.
Sono molti i designer che sembrano muoversi in questo scenario, con proposte che entrano in risonanza con le parole profetiche di Victor Papanek, quando afferma che il design deve diventare uno strumento innovativo, altamente creativo e crossdisciplinare per rispondere ai reali bisogni dell’uomo. Una disciplina sensibile, orientata alla ricerca, che deve smetterla di contaminare il pianeta con oggetti e strutture mal progettati.
Si accorda con questo invito a una nuova consapevolezza il progetto di Shahar Livne “Metamorphism – Will we mine plastics in the future?”. I cambiamenti climatici, la deforestazione e la diffusione d’inquinanti minacciano inevitabilmente l’esistenza di materiali naturali, come il legno o le pietre autoctone, mentre le conoscenze e le tecniche sono destinate a scomparire. Allo stesso tempo, emergono materiali frutto della contaminazione ambientale e quelli creati dall’uomo, come la plastica, proliferano nell’ambiente. Questo progetto specula sul futuro della nuova materia nel contesto dell’artigianato, proponendo uno scenario non lontano dove la plastica non sarà più prodotta come derivazione dal petrolio, ma potrà essere estratta in natura. Il design diviene così strumento di relazione costante con una realtà complessa e in continuo mutamento, dove il tema della conoscenza assume un valore centrale. Una complessità generata dal venir meno della chiarezza dei confini che delimitano lo spazio del ruolo del designer, a cominciare da quelli tra culturale e sociale, tra valore economico e spinta speculativa. La sollecitazione che viene da ricerche come quella di Shahar Livne è di vedere in tutto ciò un’occasione per capovolgere una situazione in cui questa perdita di riferimenti sembra essere divenuta pretesto per un atteggiamento d’impotenza e rassegnazione.
S’innesta sul fallimento dell’utopia di Henry Ford di costruire la città-fabbrica ideale nella Foresta amazzonica il progetto di Studio Swine, Fordlandia. Costruita nel 1920, questa città aveva la funzione di estrarre la gomma naturale direttamente in loco e, per raggiungerla e abitarla, furono realizzate strade, abitazioni e scuole attorno al nucleo centrale della fabbrica. Fordlandia doveva essere una città ideale con un sistema di regole e comportamenti ben definiti dall’impresa madre. Dopo una serie di rivolte contro questo sistema considerato oppressivo la città-fabbrica è stata abbandonata, coperta e integrata dalla vegetazione. È qui che lo studio inglese ha ripensato il ciclo produttivo di una plastica presintetica, prodotta localmente che conserva le caratteristiche dell’ebanite, un materiale molto duro fatto di gomma naturale, zolfo e olio di lino. Il nome deriva dalla sua destinazione d’uso come sostituto artificiale del legno di ebano. Grazie alla sua durata e alla sua lucentezza, l’ebanite come il nuovo materiale di Studio Swine sono un’alternativa ideale ai legni tropicali utilizzati tradizionalmente nelle produzioni di arredo brasiliane. Fordlandia apre così la strada a una visione del design inteso come uno strumento che può aiutarci a capire che tipo di scenari economici e produttivi si possono configurare all’orizzonte. La strada da intraprendere potrebbe non essere più quella di cercare di minimizzare il nostro impatto sull’ambiente, ma trasformare le conseguenze già prodotte.
Durante la scorsa Design week milanese, la galleria Subalterno ha dedicato al tema del rapporto tra “Design e Antropocene” una mostra curata da Stefano Maffei e Marcello Pirovano con una stringata selezione di progetti, tra gli altri di Massimiliano Adami, Carlo Contin, Lorenzo Damiani, Gionata Gatto e Nucleo. Nel testo introduttivo Stefano Maffei sottolineava come la conoscenza sperimentale sia necessaria al tempo dell’Antropocene dove non è più sufficiente il riconoscimento di un fallimento, ma occorre agire per modificare lo status quo. Una chiamata all’azione che sintonizza il mondo del progetto italiano con un dibattito internazionale già ampiamente accordato su tematiche imprescindibili per definire nuovi spazi d’azione per i designer. Occorre spingere non solo nella direzione di un conclamato e ormai condiviso allargamento del campo del design, ma soprattutto guardare oltre gli oggetti per comprendere i sistemi etici, economici e politici che li producono. Sempre in questo contesto non bisogna dimenticare Studio Formafantasma con le seminali ricerche sui polimeri di Botanica, Maurizio Montalti/Officina Corpuscoli con il suo Growing design, Francesco Faccin e la sua Honey Factory e Giovanni Innella e Gionata Gatto con il progetto Geomerce.
Anche la XXII Triennale di Milano, curata da Paola Antonelli nel 2019, già dal titolo “Broken Nature” si profila come un intenso momento di riflessione e ulteriore approfondimento sul tema. Alla luce dei progetti presentati, emerge un’idea del design come finestra aperta su un paesaggio operativo precario e complesso che non si limita a fissare una passiva fotografia dell’esistente, ma prova a determinarne una reale e possibile trasformazione.