Tra piogge tropicali, uragani e temperature schizofreniche, il MoMA ha inaugurato la mostra che accompagnerà l’autunno newyorkese: “Items: is Fashion Modern?”. Organizzata dall’italiana Paola Antonelli, senior curator del dipartimento di Architettura Moderna e Design, e Michelle Millar Fisher, curatorial assistant, l’esposizione ha l’obiettivo di dare un ordine agli oggetti e alle mode degli ultimi 100 anni, così da individuare i pezzi di design che “hanno avuto un profondo effetto sul mondo lungo il corso dell’ultimo secolo”, sulla base del loro impatto sociale, politico ed economico (visto, ovviamente, dalla prospettiva dell’Occidente avanzato). Il risultato è una lista che racchiude 111 “oggetti”, declinati in 350 “esemplari”, riflesso, secondo quanto dichiarato da Antonelli durante un talk con il direttore del museo Glenn D. Lowry, di un modo di fare “New York-centrico”. Un termine “che non rappresenta necessariamente le persone di New York, ma che si riferisce al carattere della città: attitudine di chi sa tutto, sana curiosità e una certa arroganza”.
Tra icone e stereotipi, un secolo di moda in mostra al MoMA
Cercando di dare un ordine agli oggetti e alle mode dell’ultimo secolo, la mostra curata da Paola Antonelli al MoMA di New York stila una lista di 111 oggetti fondamentali, declinati scientificamente tra stereotipo, archetipo e prototipo. L’elenco però, scrive Veronica Santi, chiede solo di essere aggiornato.
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- Veronica Santi
- 19 ottobre 2017
- New York
La lista comprende di tutto: dal profumo Chanel no. 5 al Cartier Love Bracelet, dal Red lipstick Revlon del 1952 al Rolex, dai pantaloni “Capri” a quelli per fare yoga, dallo zainetto nero di Prada alla borsa Birkin di Hermès, dall’anello di fidanzamento Tiffany con diamante alla giacca Moncler. Ma anche: infradito Havaianas, mutande Calvin Klein, walkman Sony del 1979, felpa col cappuccio, T-shirt grafica che esprime un pensiero politico, maglia delle squadre di calcio, maglia di Michael Jordan, spilletta della pace (della lotta all’AIDS e della bandiera americana), pantaloni di pelle di Guy Baldwin del 1989, anfibi Dr. Martens, i jeans Levi’s 501. Infine, dal magma dell’impero occidentale dell’oggettistica, spuntano guayabera, kente, burkini, kippah, kilt e sari come prova di visione geograficamente estesa. Il percorso espositivo si conclude con la sezione “suit”, i cui esempi vanno da Yamamoto ad Armani, fino all’ultimissimo oggetto, icona della mostra: l’universale T-shirt bianca.
Ma con quale metodo si è proceduto alla realizzazione della lista? Per capire bene la mostra bisogna prima di tutto fare un passo indietro. Nel 1944, l’architetto e designer Bernard Rudofsky organizzava, nel pieno della Seconda guerra mondiale, la prima mostra sulla moda al MoMA, il cui titolo originario doveva essere “Problems of clothing”, ma che, successivamente, venne modificato in “Are clothes modern?”. La mostra, come si legge nel comunicato stampa del periodo, avrebbe “tolto il paraocchi della tradizione dalla nostra vista in modo da lasciarci osservare come certe convenzioni, accettate perché inseparabili dal vestirsi, e quindi mai messe in discussione, siano di fatto inutili, non pratiche, irrazionali, dannose e non belle”.
Circa 60 anni dopo, Paola Antonelli iniziava a stilare una di lista dei “vestiti che hanno cambiato il mondo” (“Garments that changes the world”) per la collezione permanente del museo. La lista colpì il direttore del museo Glenn D. Lowry e diventò infine il punto di partenza per la mostra temporanea “Items: is Fashion Modern?”, dal titolo quanto mai esemplificativo della sua relazione con il caso precedente di Rudofsky. Qui, cioè, non s’interrogano gli abiti secondo un principio di stampo modernista: è un dato di fatto che viviamo nella società dei consumi e, utili o meno, questi oggetti sono esistiti, molti continuano a esistere, altri sono prototipi che aspettano di essere prodotti. Chi interroghiamo, piuttosto, è la moda (tutta, alta e bassa) e come essa abbia risposto alle nostre esigenze (tutte, di apparenza e necessità di consumo, sia esso per motivi pratici, politici, economici, sociali, culturali, religiosi o, semplicemente, estetici). In altre parole, se per Rudofsky il problema era trovare delle argomentazioni per capire se i tacchi fossero un qualcosa di necessario e funzionale, oggi il problema è la scelta: cioè se inserire nella lista le stiletto o le platform e, in seconda battuta, quali esempi elencare, se le calzature di Vivienne Westwood o le Manolo. Lo sforzo è titanico, come dimostra la complicatissima visualizzazione grafica della mappa concettuale della mostra, ma brillantemente superato dal team curatoriale composto da giovani donne; che, per l’inaugurazione, hanno scelto di vestirsi con lo stesso item, il numero 51 della lista: la jumpsuit (cioè la tuta unisex), oggetto divenuto negli anni Settanta simbolo di liberazione dalla tirannia dei generi grazie a Rudi Gernreich e al suo memorabile Padiglione Americano per l’Expo di Osaka.
La prima regola seguita per muoversi nell’oceano di prodotti creati nel secolo scorso è stata, ovviamente, la scientificità del metodo: per ogni oggetto, si è voluto cercare lo stereotipo, l’archetipo e il prototipo. Ovvero: una volta individuato l’item che si pensava avesse segnato la storia recente, si chiudevano gli occhi e si pensava alla sua forma così da visualizzarne lo stereotipo. A questo punto, si rintracciava l’archetipo, perché tutto ha un precedente e il MoMA è anche storia. Infine, il prototipo, cioè i pezzi realizzati, in alcuni casi commissionati dal museo stesso. Un esempio per tutti: l’irrinunciabile little black dress (il tubino nero) è in mostra come item #60, è descritto come metafora della moda stessa per essere stato reinventato senza fine nel corso degli anni, ed è rappresentato da esempi che vanno dal primo grande classico di Chanel del 1926, a quelli di Christian Dior, Versace, Givenchy e Philippe Starck, fino al Kinematics Dress realizzato con una stampante 3D e commissionato dal museo, come esempio di avanguardia nello studio dei materiali e il loro adattarsi alle silhouette del corpo.
Il metodo funziona alla perfezione per la maggior parte degli oggetti, anche se si avverte qua e là qualche strana distorsione e lacuna. Manca, per esempio, la moda del calzino colorato. E ancora: il Wonderbra indossato da Eva Herzigova negli anni Novanta è l’item #107, e non un esempio di reggiseno, oggetto brevettato nel 1914 da Caresse Crosby e divenuto un cult del XX secolo, dalla lingerie alla liberazione dal ferretto e le lotte femministe fino ad arrivare a tutte le declinazioni sadomasochiste, masochiste e bondage. In altre parole, nonostante il tentativo di creare categorie in modo freddo e distaccato, basato su un’ipotetica coscienza collettiva, la sensazione generale è che la scelta degli stereotipi sia fortemente influenzata da chi chiude gli occhi.
Il limite è stato risolto con una seconda regola, che è, ancora una volta, un principio fondamentale del MoMA: l’inclusione. Dopo tutto, una lista, in quanto tale, non può che essere spietata ma, grazie ai social media e all’uso dell’hashtag #itemsmoma, possiamo fare anche noi la nostra lista, cercare nel nostro armadio l’item #111 o proporre il “fuori gara” item #112, così da farlo conoscere al museo e al mondo online. Anche in questo caso, il team curatoriale ha una definizione: “Tagging as Curatorial Research”; che, di fatto, alleggerisce la serietà di una griglia tanto severa e meticolosa, trasformandola nel gioco del celo-manca. E se, aprendo il guardaroba dei nostri ricordi, ci riscopriamo molto suscettibili (siamo tutti vittime e carnefici del pensiero consumista) ricordiamoci che non c’è spazio, qui, per quelli che Bernard Rudofsky avrebbe chiamato “problem around items” (relegati qua e là nelle didascalie ai piedi di ogni oggetto). La lista è solo una lista che chiede di essere continuata: avanti con il prossimo stereotipo!
© riproduzione riservata
- Items: Is Fashion Modern?
- fino al 28 gennaio 2018
- Paola Antonelli
- The Museum of Modern Art
- 11 West 53rd Street, New York