Dal 2 all’8 luglio si è svolta a Barcellona Fab10, decima edizione della conferenza annuale sulla fabbricazione digitale e sul mondo dei Fablab.
Dai FabLab alle Fab cities
A Fab10, decima edizione della conferenza sulla fabbricazione digitale, il Comune di Barcellona ha lanciato l’ambizioso progetto “Fab Cities”, per creare una rete di fablab di quartiere.
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- Alice Mela
- 17 luglio 2014
- Barcellona
L’evento, ospitato principalmente al Disseny Hub, prevedeva 3 giorni di presentazioni e workshop per “addetti ai lavori”, seguiti da un week-end di Fab Festival, concepito per un pubblico più ampio e aperto all’intera comunità locale di maker. La conferenza è poi terminata con un giorno di simposio, al quale hanno partecipato, tra gli altri, Bruce Sterling e William McDonough, moderato da Neil Gershenfeld dal MIT di Boston, ideatore del concetto stesso di Fablab.
“Fab10” ha offerto alla città di Barcellona l’occasione di lanciare l’ambizioso progetto “Fab Cities”, con il quale il consiglio comunale spera di stabilire una rete di Fablab di quartiere. L’obiettivo è avere, nell’arco di circa 6 anni, 10 laboratori attivi e integrati con le comunità locali, uno cioè per ogni distretto. Su questo argomento, abbiamo sentito Tomas Diez, direttore di Fablab Barcellona (che fa parte dell’Institute for Advanced Architecture of Catalonia, IAAC) e principale organizzatore di “Fab10”.
L’idea di creare una rete cittadina di Fablab, ci racconta Tomas, nasce dal desiderio di riportare la produzione nell’area metropolitana e in particolare ai cittadini, cercando di ricreare una versione moderna delle corporazioni medievali. “Fab10” rappresenta cioè un’occasione per sondare l’interesse da parte della comunità locale e per cominciare a costruire un ecosistema di laboratori che includa anche alcuni spazi ibridi e makerspace già esistenti in città, come il MOB (Makers of Barcelona), il Made e La Fabrica del Sol.
Nonostante il nobile principio alla base dell’iniziativa, è però difficile non pensare al rischio di passare da un desiderio di produzione customizzata, principio fondante dei Fablab, a una produzione standardizzata, tramite strategie semigovernative e top-down. Sul tema sostenibilità, emerge quindi la necessità per Fablab e maker di trovare un modo migliore per gestire risorse e materiali; e Tomas ci lascia con un’affermazione su come la riappropriazione e customizzazione della produzione non porterà a una diminuzione di cose prodotte, ma a un aumento di prodotti rilevanti per gli utenti.
Proprio su questo tema, si torna a discutere dei cari vecchi principi di economia circolare e progettazione “dalla culla alla culla”, che riaffiorano come tendenze in questa terza rivoluzione industriale dei maker, così come fecero più di dieci anni fa, agli albori del design sistemico. Così William McDonough (co-autore di The Upcycle: Beyond Sustainability. Designing for Abundance, 2013), ha rilanciato il concetto di upcycling, insistendo sulla necessità di creare un’industria che crei valore e che non si limiti semplicemente a non essere nociva.
La Ellen MacArthur Foundation ha poi esteso il dialogo con i primi esempi industriali di successo di questo approccio, come i processi di rigenerazione industriale di Renault a Choisy-le-Roi e la strategia Pay per Lux di Philips, dove la compagnia si fa carico anche dei consumi, oltre che del costo delle luminarie stesse. “Fab10” ha anche portato luce su un’attuale fase di stallo del movimento maker, ancora troppo basato sul “fare” senza scopo e sull’utilizzo di tecnologie produttive per il gusto di esser maker. Con circa 350 Fablab attivi nel mondo e più di 100 Maker Faire annuali, problemi quali logistica e sostenibilità (ambientale ed economica) non possono essere ignorati.
Un po’ come successe all’epoca dei primi computer e calcolatori elettronici, bisognerà passare da un’utenza di nicchia all’integrazione di queste tecnologie nella vita di ogni giorno, creando ecosistemi che facciano i conti con ambiente e comunità locali. In occasione della conferenza, sono stati assegnati i Fab Awards, risultato di una competizione annuale nell’ambito della fabbricazione digitale. Vincitore di questa edizione è stata la stampante 3D W.Afate di Afate Gnikou, prima 3D-printer “made in Africa” e interamente prodotta con rifiuti elettronici (e-waste). Durante il simposio, è infine emerso uno spiccato interesse da parte dell’industria – e in particolare di grandi multinazionali – nei confronti del potenziale creativo e tecnologico concentrato nella rete dei Fablab. Presentatori per conto di Nike, Google e Airbus hanno espresso il desiderio di trovare un punto d’incontro con la comunità dei maker, sperando di usufruire del loro know-how, ma senza sbilanciarsi troppo nel condividere il proprio.
Niel Gershenfeld, moderatore del simposio, ha anche annunciato un contributo da 10 milioni di dollari concesso da Chevron alla Fab Foundation e destinato a fondare 10 nuovi Fablab negli Stati Uniti, in zone dove opera la compagnia. Recenti vicende, come l’acquisizione di MakerBot – con relativi brevetti – da parte di Stratasys, lasciano però spazio a dubbi riguardo alle buone intenzioni dimostrate dal settore privato ed è impossibile non temere una contaminazione dei principi fondanti del “movimento Fab”, nato proprio dal desiderio di distanziarsi dalla produzione industriale tradizionale. Bruce Sterling stesso ha messo in guardia il pubblico dal credere troppo alle buone intenzioni di grandi compagnie impegnate a creare smart e fab cities, perché è così che standardizzazione e controllo cominciano.
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