Se l’Africa è un continente contraddittorio, stratificato, eternamente scivoloso a qualunque tentativo d’immaginazione e definizione, il Sudafrica amplifica questi scarti e ne raddoppia le ambiguità. Soprattutto considerando che, pur pregno di africanità – e ammesso che si possa parlare a cuor sereno di un’africanità – il Sudafrica per molti è considerato Africa solo a metà. E per il restante 50% è uno stato europeo, americano, giamaicano, cubano, indiano, cinese… Questa frammentarietà che emerge nei confini geografici, sociali, architettonici, linguistici (il Sudafrica ha qualcosa come 11 lingue ufficiali), com’è ovvio, trova la sua sede naturale nell’arte e la sua applicazione elettiva nel design.
La lezione ambigua del design africano
“Africa is now”, a cura di Design Indaba, ci fa scoprire un design intelligente non solo “made in Africa”, ma “made for Africa”, che parte dai bisogni locali e li trasforma in risposte di portata globale.
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- Chiara Alessi
- 18 marzo 2014
- Città del Capo
Nel 2014, a vent’anni dalla proclamazione della sua democrazia, Cape Town è World Design Capital. Però lo sapevano in pochissimi fuori dal Sudafrica prima di questo febbraio, quando si è tenuta la fiera annuale di Design Indaba, per altro solo temporalmente coincidente con le prime manifestazioni legate a CTWDC2014. In concomitanza, c’è stato anche Guild Design, terzo vertice del design a cavallo tra febbraio e marzo, a sua volta sconnesso dall’expo di Indaba. Cioè tre operazioni, probabilmente molto costose, comunicativamente efficientissime (almeno a livello nazionale), con un panel di ospiti e seminari da fare invidia alla dispersività milanese, che anziché farsi portatrici all’esterno di un messaggio corale (probabilmente alla resa dei conti inesistente) hanno raccontato in questi giorni le loro tre identità del design sudafricano, a loro volta multiple e complesse.
Prendiamo Design Indaba, l’istituzione creata da Raivi Nadoo per radunare e mettere in connessione il meglio della creatività internazionale con le emersioni locali, la cui fiera quest’anno è giunta al suo ventesimo anniversario. A parte la conferenza, che è considerata l’evento di punta, e puntualmente sold out, dei tre giorni di festival, con tutti i big che ospita (quest’anno Thomas Heatherwick, Naoto Fukasawa, El Ultimo Grito, Stefan Sagmeister, Hans Ulrich Obrist, solo per citarne alcuni) gli altri due fiori all’occhiello di Indaba quest’anno erano il seminario tenuto da Li Edelkoort e la piccola visionaria mostra allestita all’ingresso del CTICC da Stefan Scholten e Carol Baijings sui CMF (colori, materiali, finiture) per Mini.
Così, i giornalisti stranieri che incrociavi in quei corridoi ti chiedevano: “Ok, ma il design africano, dov’è?”. Rispondere a questa domanda è difficilissimo, ma è ancora più difficile dare un senso alla domanda che, probabilmente – e inevitabilmente – è viziata dal punto di vista europeo occidentale e dalla presunzione di provenire da un osservatorio privilegiato, magari con il cappello (colonialista) dell’etnologo che prodiga pacche sulle spalle. D’altra parte però, non si può far finta di niente e parlare del Sudafrica come di un Paese qualsiasi, senza cercare anche nel suo design forme di quella storia e storie che lo pervadono. Questo anche se molto del design visto in questi giorni dà proprio l’impressione di voler provenire da una terra di nessuno.
Come il design italiano, svedese, tedesco, inglese, americano, ecc.., anche il design africano ha interpreti ed espressioni varie e molteplici, che vanno dall’artigianato locale rivisitato (un craft 2.0 con un occhio alla tradizione e l’altro al nostro continente), all’emulazione di un linguaggio apolide e diffuso (che parla la lingua dei teschi, dello shabby sverniciato, dell’estetica olandese), alle forme di autoproduzione (nel modello designer/impresa che qui abbonda tra i ricchi bianchi sudafricani che aprono e chiudono monomarca del brand con cui si autodisegnano sedie, librerie, fioriere, tavoli), ai progetti digitali dei maker, ai progetti di arte/design venduti localmente a facoltosi clienti, in attesa che una gallerista straniera punti il dito e ne faccia un talento. Accanto a queste espressioni, tutte legittime e alcune di grande qualità – che però inevitabilmente soddisfano poco per chi viene da fuori la famosa domanda di poche righe fa – c’è un design intelligente, utile, alternativo e originale non solo “made in Africa”, ma “made for Africa”, ovvero quello che parte da urgenze, bisogni, domande locali e li trasforma in risposte di portata globale.
Per fortuna, nonostante la comunicazione solenne e l’immagine internazionale, la fiera di Design Indaba si esaurisce in un padiglione solo, ma affollatissimo, in cui dovrebbe essere rappresentato il meglio della creatività non solo sudafricana, ma continentale, non solo in prodotto, ma anche in fashion e gioiello (pochissimo il furniture), perciò non è difficile scovare subito le mosche bianche. Sono, a mio avviso, in due stand che si affacciano uno sull’altro: la mostra “Africa is now” a cura di Design Indaba, con una selezione di 60 oggetti da 25 paesi africani e il progetto – uno dei pochissimi di World Design Capital ospitati in questa sede – “Yenza. Make it!”, sottotitolo: “Celebrating self-made objects from self-made homes”. Quest’ultimo meritevole per tre ragioni: perché celebra, scaltramente in un contesto inedito, un tema di portata globale e grande attualità come quello dell’homo faber/maker; perché mette in mostra una campionatura materiale antropologica varia e interessante di progetti che raccontano intuito, buon senso, riuso nella quotidianità delle township (cfr. “Made in Slums”, la mostra ospitata dalla Triennale di Milano fino allo scorso febbraio); perché avvia un progetto di business intorno a queste comunità mettendole in dialogo con una domanda commerciale concreta, benché per ora limitata.
I sottotitoli di “Africa is now” invece sono essi stessi cinque messaggi eloquenti lanciati al resto del mondo: “Africa is urban”, “Africa is transformed” , “Africa is tradition reinvented”, “Africa is sharp”, “Africa is resourceful” e provengono dal Malawi al Kenya, dal Mozambico al Cameroon, dal Ruanda al Burkina Faso, dal Ghana alla Costa d’Avorio, comprendendo una serie incredibile di tipologie “thought for Africa”, tra cui spiccano, tra le altre, apparecchiature mediche di autodiagnosi, progettate per abbattere costi e difficoltà legate agli spostamenti; applicazioni e software da impiegare in ambito agricolo e sanitario; sistemi di illuminazione portatile che sfruttano l’energia solare e il materiale riciclato; ma anche assorbenti intimi economici e fatti con materiale locale naturale e ipoallergenico (in Uganda il 90% della popolazione femminile che vive in abitazioni di fortuna non ha i mezzi per usufruire di quelli in mercato, perciò o vive segregata o adopera soluzioni antigieniche) o sistemi modulari in plastica riciclata per costruire abitazioni in maniera rapida ma permanente; e ancora: una sedia a rotelle specifica per bambini che vivono in contesti rurali fino alla reinvenzione di una ruota stessa, per ovviare al trasporto manuale nelle varie conformazioni del terreno. In molti di questi casi si tratta di progetti che hanno bisogno di ulteriori sviluppi e fondi per essere impiegati su larga scala e in certi casi andrebbe testata l’effettiva efficacia funzionale, ma la novità è che si tratta di sperimentazione applicata, un’apparente tautologia a cui tanto design di ricerca autoreferenziale ci sta però disabituando.
Ora, non è che questo design sia strettamente più africano del precedente perché guarda al di dentro anziché al di fuori, e neanche ci si può arrogare il diritto – dopo decenni che in Europa disegniamo sedie e librerie – di dire che non c’è più spazio per partecipare a chi sale sulla giostra del design di prodotto, o sconsigliare di intraprendere certe strade visto che l’esperienza insegna che le aziende scarseggiano e le altre forme di visibilità e guadagno sono sature ed esclusive (e per lo più già occupate qui) e infine va superata certamente l’idea che solo perché noi lo facciamo da più tempo, siamo più bravi. Anzi, in dieci anni di andirivieni da Cape Town, si vede una città trasformata con interventi di progettazione urbanistica avveniristici e raffinati (che saltano tanto più all’occhio perché fatti magari nelle zone di degrado maggiore) e non si fa fatica a pensare che in altri dieci anni la qualità dei progetti e dei progettisti sarà supercompetitiva. Ma, per chi guarda da qui, e probabilmente a sua volta ha già fatto indigestione di una certa estetica, è in risposte come quelle offerte dalla pur ristrettissima (siamo fiduciosi che saranno più di 66 i progetti innovativi) selezione di “Africa is now” che sembra che il design africano abbia trovato la sua immagine più interessante. Soprattutto sembra risiedere qui la formula di un design più promettente. Proprio quella che da noi è stata sublimata senza forse essere stata davvero risolta a fondo, e a cui probabilmente anche in Europa dovremo a un certo punto ripensare: quella che aggancia la necessità alla bellezza, alle risorse. E alle persone.