Matt Cottam, CEO dello studio di design interattivo Tellart, racconta una storia che illustra quanto questa demarcazione appaia oggi sfuocata. Mentre era in viaggio, lontano dalla sua abitazione in Connecticut, il suo cane si è perso: impaurito da colpi di arma da fuoco, l’animale si era lanciato a capofitto nel bosco, facendo perdere le sue tracce e lasciando i proprietari nell’apprensione. Pochi giorni dopo, mentre era a bordo di un tram ad Amsterdam, Cottam ha ricevuto una telefonata dagli Stati Uniti: era l’accalappiacani che, controllando l’animale, aveva scoperto nel collo un microchip RFID, collegato a un database di proprietari. “Già ero sorpreso dal fatto che questa signora mi avesse rintracciato e chiamato con un prefisso internazionale”, spiega Matt, “ma l’idea che potesse aver controllato il collo del mio cane, scoperto un’interfaccia e scovato il mio numero, e che tutti questi servizi telematici ci avessero permesso di entrare in contatto e di riportare il cane a casa, mi è sembrata semplicemente straordinaria”.
Qui, la distinzione di Tati tra freddo-tecnologico e caldo-umano viene dissolta: da un cane—se possibile, la creatura più lontana che si possa immaginare dai rettangoli luminosi su cui fissiamo di continuo lo sguardo. In pochi decenni, l’informatica è diventata uno strumento intimo e personale. Internet si è completamente insinuato nella materia di cui è fatta la vita di tutti i giorni, è diventato completamente inseparabile dalla vita stessa. Anche se questa realtà può suonare sinistra, quando la si vive appare del tutto normale, ordinaria, persino banale. Invece, è del tutto straordinaria: così straordinaria eppure ancora così invisibile da richiedere un oggetto visibile per essere rivelata e spiegata.
Entrate a “Chrome Web Lab”: una grande mostra—ospitata negli spazi del London Science Museum e integrata da una piattaforma online—che presenta una serie di esperimenti, ciascuno dei quali espone un aspetto diverso dei funzionamenti interni della Rete, spiegando i magici trucchi della tecnologia informatica che la supporta. “Web Lab” è il risultato del lavoro di molte persone e molte aziende, prime tra tutte Tellart e Google Creative Lab. Spiega Steve Vranakis, direttore creativo del Google Lab di Londra: “Molto spesso penso che la Rete sia ovunque: una parte più o meno invisibile della nostra vita. Non che lo si dia necessariamente per scontato, ma a volte dimentichiamo ciò che questa cosa è davvero. Perciò abbiamo voluto alzare il velo e mettere a nudo parte di questo mondo”. Cottam usa altre parole: “Se spingi internet al limite, ecco cosa ne esce”.
Ne escono cinque esperimenti che formano “Web Lab”, tra cui robot capaci di disegnare il vostro volto sulla sabbia; una serie di strumenti musicali collegati in Rete, che possono essere suonati in collaborazione; dei Teleporter in grado di guidarvi in tempo reale verso località lontane, e un “rintracciatore di dati”, che mostra in quale punto della Rete un’immagine è salvata, e come vi raggiunge se la cliccate. Il tutto legato da una Lab Tag, un prototipo di carta d’identità leggibile a computer, usata per memorizzare le vostre interazioni.
Ciascuno di questi esperimenti dimostra un particolare aspetto dell’architettura di internet—collaborazione in tempo reale, compressione dei dati, programmazione di linguaggi e database, scambio di pacchetti, intelligenza artificiale—ed evidenzia la capacità di Google Chrome di gestire tutto questo, anche quando è spinto al limite. In realtà, il mandato di Google Creative Lab, come spiega Vranakis, era “dimostrare con esempi pratici le prestazioni e le possibilità delle piattaforme prodotte da Google”. Così, a quanto pare, “Web Lab” è un’elaborata forma di pubblicità per il browser Google Chrome, ma questo aspetto è giocato in modo molto sobrio. Afferma Vranakis: “Questo è uno spazio pubblico, un museo, un luogo visitato da persone curiose e desiderose di apprendere. L’obiettivo è mostrare alla gente quello che si può fare online, come funziona la Rete, e dare vita a tutto questo. Il che, magari, può anche ispirare le giovani generazioni a interessarsi all’informatica”.
Il dato diverso, forse, è il modo in cui questo ‘insegnamento’ si articola. Proprio come il cane digitalmente aggiornato di Cottam, internet non è presentato qui come qualcosa a cui è possibile accedere unicamente attraverso il terminale di un computer. “Web Lab” ribalta la metafora che abbiamo usato per descrivere internet in passato—diagrammi corali di nodi e connessioni, la cascata di numeri verdi di Matrix, il cervello globale, la ‘nuvola’—, presentandolo invece come un elemento incorporato negli oggetti fisici che popolano lo spazio reale. È come se un angolo del tessuto invisibile di internet si fosse improvvisamente rivelato nel mondo fisico. Le ragioni per cui questo minuscolo angolo del web agisce così, e non altrimenti, vanno attribuite principalmente ai designer di Tellart, il cui lavoro, collocandosi nell’ambiguo spazio in cui si sovrappongono design industriale e informatica, deve ancora solidificarsi in una disciplina autonoma. Cottam dapprima descrive l’attività di Tellart appoggiandosi a un’intera valanga di termini tecnici piuttosto astrusi—interaction design, internet of things, ubiquitous computing, big data, smart cities e physical computing—, ma, alla fine, conclude dicendo che lo studio produce “semplicemente design industriale del XXI secolo”. Si tratta di un resoconto intenzionalmente prosaico, che fa ritorno alle radici dell’azienda di Providence, Rhode Island, dove l’attitudine pragmatica, a maniche rimboccate, tipicamente New Englander, ha lasciato il segno sul particolare approccio alla progettazione e alla produzione. Tellart concepisce i “dati semplicemente come un altro materiale, assieme a legno, metallo e vetro”, adottando un approccio ibrido e multidisciplinare al design. Il progetto Web Lab è iniziato nel 2009 sotto auspici non particolarmente favorevoli, quando Tellart è stato avvicinato da un’agenzia pubblicitaria incaricata da Google di produrre una memorabile installazione interattiva in grado di spingere le persone a cambiare browser. A solo qualche mese dall’inizio, però, il progetto era sul punto di essere cancellato a causa di un conflitto d’interessi da parte dell’agenzia. Tuttavia, invece di lasciarsi sfuggire questa opportunità, il team di Tellart, insieme con i membri chiave di Creative Lab e del marketing di Chrome, ha ideato un progetto completamente nuovo, e l’ha sintetizzato in quello che oggi chiama semplicemente The White Film.
Usando solo elementari modelli di cartone bianco, animazione a passo uno e proiezione di luci colorate, The White Film è riuscito a catturare, in una manciata di minuti, l’essenza di quella che sarebbe diventata la mostra “Web Lab”. Si tratta di uno straordinario esempio di cinematografia “non richiesta”: uno strumento promozionale proattivo, che ha strappato il progetto dal ciglio del burrone e lo ha trasformato in uno sforzo esteso, dagli iniziali sei mesi, a due anni. A latere, questa è una lezione per i designer su come ottenere una grossa commissione. I grandi progetti sono di rado il risultato della telefonata inaspettata di un facoltoso committente che sottopone un brief perfettamente organico, ma richiedono una visione strategica e rischiose tattiche per trasformare il lavoro che hai in quello che vuoi. The White Film ha stabilito anche il concetto di esperienza principale per la mostra ‘reale’, che sarebbe stata realizzata due anni dopo. Per arrivare a questo punto, una serie di altri partner sono stati invitati a collaborare agli stadi finali, in modo da progettare e costruire l’esperienza con Tellart e Google Creative Lab. Per quanto si sia trattato di un processo completamente collaborativo, i vari ruoli possono essere genericamente attribuiti come segue: Universal Design Studio/MAP ha guidato il progetto della mostra e ha collaborato con Tellart al design industriale; B-Reel ha sviluppato il branding, nonché disegnato e realizzato il sito; i grafici di Bibliothèque hanno lavorato all’identità visiva della segnaletica interna allo spazio; infine, il mago della programmazione Karsten Schmidt ha apportato il suo contributo al design e alla codifica di Lab Tag e Lab Tag Explorer.
Il risultato finale è lontanissimo dall’estetica stile Tron che siamo abituati ad aspettarci ogni qualvolta la tecnologia viene presentata al pubblico. Al suo posto, la tavolozza comprende molto semplicemente l’uso di colori primari su sfondo bianco: chiara, pulita e ben lungi dal creare una qualsiasi forma di soggezione, è simile piuttosto a una versione abitabile di una homepage Google. Le strutture degli esperimenti sono realizzate con intelaiature aperte—in acciaio bianco verniciato a spruzzo—, poggiate su solide basi grigie in cemento, con collegamenti in fili giallo brillante e canaline portacavo, che tracciano traiettorie nello spazio, a consolidare il collegamento ideale con il web. Su tutto risaltano i colori accesi della grafica Lab Tag e degli strumenti robotizzati. L’effetto è “simile a un parco giochi in cui scorazzano i bambini, con strutture che somigliano a griglie per arrampicare”, sostiene Vranakis, “perché talvolta la tecnologia può essere un po’ fredda e incutere timore”. L’altro ‘spazio’ di “Web Lab” è l’esperienza online: tutti gli esperimenti sono infatti accessibili tramite un sito proprio. Quest’ultimo è più che un semplice simulacro virtuale: è una sintesi integrata, in cui fisico e digitale dipendono uno dall’altro: “Se ne togli uno, l’altro resta muto”, dice Cottam. In un notevole esercizio di consistenza, ben poco permette di distinguere l’esperienza online dalla presenza fisica in loco. Le interfacce per controllare gli esperimenti online sono le stesse dei touch screen che incontriamo al museo, ed è persino possibile guardare la propria performance in tempo reale grazie a una batteria di telecamere.
In tal senso, “Web Lab” rappresenta una forma di spazio ibrido, progettato per essere conosciuto sia di persona sia attraverso la Rete, e presenta una particolare sfida al modo in cui tradizionalmente ci avviciniamo al design. Fa saltare le scale di design ordinatamente sovrapposte dell’architetto finlandese Eliel Saarinen, perché questo spazio non può più “essere considerato in rapporto al suo vicino di maggiori dimensioni—una sedia in una stanza, una stanza in una casa, una casa in un quartiere”. Fa balzare, invece, da un interno museale londinese alla scena globale della Rete di Google, come un portale digitale in cui si sbircia in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo. Tuttavia, questo cambiamento di scala, potenzialmente stridente, avviene senza fratture grazie all’omogeneità e alla coerenza del design fisico e digitale di “Web Lab”.
È stato proprio il successo di questa integrazione tra online e offline a porre una delle questioni più spinose per il team “Web Lab”. Come dice Vranakis, “l’unica cosa su cui continuiamo a lavorare è la verosimiglianza, perché la gente semplicemente non crede che, mentre suoni uno strumento, ci possa essere qualcuno collegato online da un Paese straniero che suona lo stesso strumento accanto a te”. Anche per Cottam, che conosce i meccanismi forse meglio di chiunque altro, il senso di stupore rimane. “Quando passi accanto a questi strumenti e vedi ‘Vietnam’, ‘Australia’, ‘California’, indipendentemente da quante volte nella vita colleghi oggetti alla Rete, ti appare sempre come una sorta di magia sapere che, esattamente in quel momento, c’è gente seduta a casa propria, o in ufficio, che guarda verso una telecamera e suona questi strumenti”.
Parlando della mostra, la parola ‘magia’ torna ripetutamente. Non a caso, un primo slogan per l’evento era “The Magic of the Modern Web”. Naturalmente, però, la Rete non ha nulla di magico: è, viceversa, quanto di più lontano si possa immaginare dalla magia: è scienza, tecnologia, design, business, e un sacco di duro lavoro. Lo slogan è stato abbandonato e al suo posto si è intrapreso lo sforzo di rivelare la realtà invisibile di quello che sta accadendo, e di comunicarla chiaramente. Questo avviene a livello letterale nei video esplicativi che accompagnano ciascun esperimento, ma anche in modo più sottile, come, per esempio, lasciando visibile la barra di stato sull’interfaccia touch screeen del museo, a dimostrare che l’intero meccanismo è gestito da dentro un browser. Parte di quanto vediamo è presumibilmente marketing, e consente a Google di annunciare orgogliosamente che “tutto gira su Chrome!”. Tuttavia, ci parla anche della realtà che occupiamo, e di ciò che è possibile fare oggi con strumenti incredibilmente potenti, a cui la maggior parte di noi può accedere tramite computer.
È proprio questo il senso dell’intera faccenda: mostrare ciò che è possibile oggi. Per certi versi, gli esperimenti sono in sé inutili: non riesco a pensare a molti utilizzi pratici della possibilità di tracciare i nostri ritratti sulla sabbia. L’esperimento del disegno su sabbia dimostra come un computer possa, in pochi minuti, scattare una vostra foto, riconoscere il vostro volto, aggiustare le dimensioni e i livelli di colore, applicare nodi ai bordi, creare uno schema di vettori, convertire le informazioni in un codice, inviarlo a un braccio robotizzato in un museo londinese che traccia delle linee sulla sabbia, realizzare un filmato in alta definizione, caricarlo su YouTube e inviarvi il link. Il che lascia sicuramente stupefatti, ma il fatto che non ci sia bisogno di un robot per disegnare un ritratto sulla sabbia non fa che sottolineare questa insensatezza. Non posso fare a meno di pensare che, se questa spinta genialoide venisse applicata a qualcosa di più importante, potrebbe ottenere un risultato migliore che non soltanto ispirare la prossima generazione di scienziati dell’informatica: magari, potrebbe ispirarla a fare qualcosa di utile. Ma perché usare sabbia? Trattandosi di una mostra che può essere ‘visitata’ da chiunque, da qualsiasi parte del mondo, le cifre sulla partecipazione sono impressionanti. A cinque mesi dall’inaugurazione, “Web Lab” ha attirato 200.000 persone nel museo, e altri 4,3 milioni di visitatori online. Questa è una mostra reale che funziona anche sulla scala virtuale di Google, e richiede strategie particolari per far fronte a queste cifre. Mentre l’approccio di Google verso la capacità d’incrementare i volumi è semplicemente mettere a disposizione più server, far posto a un’analoga quantità di dati nel mondo reale richiede un’idea geniale. Tracciare tutti questi ritratti su carta avrebbe rappresentato uno spreco enorme—9.000 risme di fogli A4, secondo i miei calcoli—, invece la sabbia viene semplicemente livellata ed è pronta per essere riutilizzata per il disegno successivo.
Cancellare un disegno tracciato sulla sabbia rappresenta anche una chiara metafora del ‘dimenticare’, cosa riguardo alla quale il team di Google si mostra sempre più sensibile, mentre tenta di conservare la fiducia generale circa il modo in cui utilizza l’enorme quantità di dati personali di cui dispone. Nonostante questo, i componenti del team di “Web Lab” sembravano comunque motivati a far sì che i visitatori potessero salvare le cose che avevano creato. Il modo normale per farlo sarebbe stato richiedere qualche tipo di login, con un indirizzo di posta elettronica o una casella in un social network. Dato, però, che una vasta porzione del pubblico è rappresentata da scolaresche, troppo giovani per essere guidate a registrarsi con Google+, questa opzione era improponibile. La soluzione è il Lab Tag, un sistema d’identificazione unico e anonimo, composto di due parti: una, umana-leggibile—ciò a cui Cottam fa riferimento con il termine ‘geroglifico’—; l’altra, che può essere letta tramite visione a computer, come un codice QR. Ciò che il visitatore produce è registrato e associato al cartellino. A casa, quest’ultimo può essere letto da una webcam, caricando così tutto quello che la persona ha prodotto nel corso della sua visita. Si tratta di un esempio di design tanto semplice quanto brillante, che aggira abilmente le problematiche della privacy, trasformando un vincolo in un’opportunità. Analogamente, l’idea di usare musica è stata, a sua volta, guidata dalle limitazioni del pubblico e della privacy. Spiega Cottam: “Volevamo che la gente socializzasse veramente e collaborasse a questo progetto educativo, ma non potevamo permettere che i visitatori online parlassero con i bambini presenti nel museo, perché esiste—ed è notevole—il rischio che le persone si comportino in modo inappropriato, e una delle maniere migliori in cui tutti possono interagire non-verbalmente è attraverso il far musica”. In verità, la Universal Orchestra—sia online sia offline—è il vero punto forte della mostra. L’idea che una manciata di persone di diverse parti del mondo possa riunirsi online e produrre musica, senza un’idea predefinita riguardo al modo in cui tale musica debba essere, è semplicemente fantastica. Quello che ancora di più colpisce è la qualità del suono. Non tutti gli esperimenti funzionano.
I Teleporter—mirini che ruotano come un periscopio e consentono di sbirciare attraverso una telecamera connessa alla Rete e posizionata in altre parti del mondo—nonostante la loro interattività, hanno un’aria familiare, come Skype o come una webcam. Allo stesso modo, il Data Tracer—che mostra su una mappa del mondo dove un’immagine è salvata e quanto ci vuole per caricarla—non sembra spingere la tecnologia abbastanza in là, né produrre un significativo dato di conoscenza. Si tratta di sottigliezze, o forse io mi faccio impressionare più difficilmente del pubblico di scolari a cui la mostra s’indirizza.
“Web Lab” è riconoscibile come manifestazione fisica di internet nel mondo reale, e tuttavia, allo stesso tempo, è anche qualcosa di unico e distinto. È, in un certo senso, proiettivo, in quanto ci aiuta a immaginare quel che internet può essere, rappresentando un’espressione più ottimistica e creativa di dove le nostre vite digitali possono essere dirette. Per questo, come per altri progetti simili, rimane tuttavia aperta la sfida a superare la “questione della credibilità”, a far passare la tecnologia di internet come scienza invece che come magia. La realizzazione elegante, l’uniformità nel design e la coerenza online-offline di “Web Lab” sono ammirevoli ma, come il gioco di mano dell’illusionista, nascondono i meccanismi del trucco che sta sotto. Anche se questo è di certo un complimento, non posso fare a meno di pensare che con qualche ‘cucitura’ visibile, e un po’ più di motivazione e apertura, sarebbe più facile immaginare come questa tecnologia potrebbe essere applicata in altre circostanze. Gironzolando per “Web Lab” ci si può ancora sentire come Monsieur Hulot nella cucina moderna della sorella: incuriositi, impressionati, un po’ confusi, eppure consapevoli che tutte queste novità apparentemente inutili presto cambieranno il mondo. Rory Hyde (@roryhyde). Architetto, ricercatore e giornalista radiotelevisivo