Questo articolo è stato pubblicato su Domus 953, dicembre 2011
Un trono per l'uomo qualunque
Ho anch'io la mia sedia preferita. A dire il vero, chiamarla sedia è un po' ridicolo, visto che si tratta di un trono: parlo di Sacco, la poltrona decostruita, liquefatta, da stringere tra le braccia, dopo la quale venne il diluvio. Geniale, elegante con disinvoltura, semplice e sublime, Sacco esprime tutti gli ideali che i designer hanno perseguito fino dal giorno della sua nascita, nel 1968
(dalla personalizzazione di massa all'adattabilità, senza poi parlare della rilevanza culturale e sociale). Il suo punteggio sulla scala
della sostenibilità non è particolarmente elevato, ma contiene
del potenziale (in effetti, potrebbe essere confezionata e distribuita vuota, e si potrebbero ideare degli appositi centri di quartiere per triturare materiali domestici di scarto e farne palline da utilizzare al posto del polistirolo quale imbottitura…).
Non esistono molte sedie capaci di far lavorare l'immaginazione al pari di Sacco, forse perché ce ne sono tante, troppe. Le sedie sono un ingrediente base del design, una delle prime categorie di oggetti (con le automobili) a cui la gente di tutto il mondo pensa quando entra in campo quella parola che comincia per 'D'.
States of Design 08: Après moi, le déluge
Il design della sedia è davvero finito? Dalle sedute informali dei movimenti radicali degli anni Sessanta agli esercizi di eleganza tecnologica di Konstantin Grcic, una ricognizione sulle sfide di uno degli archetipi dell'industrial design.
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- Paola Antonelli
- 29 dicembre 2011
- New York
Nella vita di un designer, la sedia rappresenta anche un rito d'iniziazione, il primo vero e maturo confronto con le responsabilità associate alla professione. Per le sedie, più che per qualsiasi altro oggetto di design, l'essere umano costituisce l'unità di misura a cui ricondurre ogni cosa, compresa ogni valutazione di tipo economico legata ai processi di produzione e marketing. Nella storia del design le sedie sono onnipresenti, al punto da poter essere usate come elemento chiave per costruire una narrazione particolareggiata dei suoi diversi capitoli. Possono essere apprezzate per la loro veste di oggetti tecnici e artistici, oppure tecnici e funzionali; in ogni caso sono in grado di rappresentare un intero settore, un'intera cultura. Ma che cosa dicono le sedie riguardo agli ultimi dieci anni, e riguardo al presente? Parlano di una crisi d'identità e di motivazioni per il settore del mobile, e portano i segni di un'inarrestabile selezione naturale della specie che non è più guidata dai 'consumatori', quanto piuttosto da utilizzatori e proprietari divenuti meno agiati, più esigenti, o l'una e l'altra cosa insieme. Si tratta ovviamente di una generalizzazione, e forse anche di una mia particolare speranza inespressa ma, proprio come succede per i libri tradizionali, le sedie e altri elementi d'arredo, oggi devono dimostrare che meritano di esistere in quanto espressione di soluzioni di estrema raffinatezza, innovazione tecnica o tipologica, migliore ergonomia, alto livello di creatività oppure di finalità sociali. In queste pagine, raccogliamo alcuni esempi di 'contributi significativi', nonché interessanti indicazioni per il futuro.
Quando si parla d'innovazione tecnologica e ricercatezza, viene subito in mente Konstantin Grcic. Grcic è un designer 'slow' ossia lento, (coscienzioso, rigoroso, attento ai dettagli, consapevole delle implicazioni) di quella speciale lentezza che ci siamo abituati ad apprezzare, per esempio, nel cibo e nel viaggiare. Grcic dà l'impressione (solo lui e i suoi collaboratori sanno se sia vero o meno) di prendersi tutto il tempo necessario per concentrarsi sul processo di progettazione. Al Salone del Mobile del 2008, ha dedicato l'intero spazio di una mostra alla sedia Myto, commissionata dal gigante della chimica BASF dopo un concorso per la realizzazione di un prodotto che impiegasse il loro Ultradur®, un polimero di largo impiego nell'industria automobilistica. Grcic ha esposto modelli e prototipi, dando grande risalto a un processo di produzione che impiega il minimo indispensabile di materiale; ha illustrato e accarezzato l'elegante profilo a sbalzo, che non ci si aspetterebbe in una sedia in plastica; si è poi addentrato a commentare le caratteristiche di impilabilità, offrendo un'indimenticabile lezione di design industriale.
Proprio come succede per i libri tradizionali, le sedie devono oggi dimostrare di meritare di esistere
Il perfezionamento di tipologie preesistenti, la categoria del cosiddetto 'redesign' che Achille Castiglioni rese popolare con le sue reinterpretazioni dei tavolini da caffè francesi e sedie pieghevoli in legno, ha recentemente assunto pieghe inaspettate, evocando il futuro piuttosto che abbracciare la forma nostalgica delle cose a venire. Worker Armchair di Hella Jongerius (2006) celebra il legno massiccio, il materiale su cui la designer si è formata avendo studiato carpenteria. Si tratta di una poltrona piena di elementi contrastanti e di accattivanti idiosincrasie, dalle curiose proporzioni tra la seduta bassa e l'alto schienale, ai tessuti coordinati, fino alla giustapposizione della struttura in legno dello scheletro della base (visibile nella parte posteriore) all'armatura di alluminio dei braccioli in legno, a sbalzo. È una poltrona del tutto inedita, che tuttavia sa distillare l'essenza di secoli di poltrone.
Hella Jongerius è tra gli autori più ispirati e innovativi, ha dimostrato con sapienza l'importanza fondamentale di sposare tradizione e innovazione e di scavare a fondo nella cultura locale per arrivare al sublime universale. Negli ultimi decenni le tradizioni locali si sono dimostrate, sia per il design sia per l'architettura, il modo più significativo per superare il modernismo senza abbandonare le qualità del design moderno. Alcuni paesi le cui tradizioni materiali sono radicate nell'artigianato e la cui economia si fonda sulla necessità, come India e Brasile, vengono considerati i nuovi paradigmi per l'architettura e il design, mentre i sottili accenti della cultura dei materiali emergono nel lavoro (per quanto elegantemente superfluo) non solo dei maggiori esponenti di questo movimento, Fernando e Humberto Campana, ma anche di designer come Doshi Levien o Satyendra Pakhalé.
Shiro Kuramata, il compianto maestro giapponese, è stato tra i primi a esemplificare l'idea di apprendere dalla tradizione locale senza sacrificare la contemporaneità. Negli anni Settanta e Ottanta, ha preso in considerazione le regole più consolidate del design modernista e le ha piegate alla sua sensibilità intimamente giapponese; ha reinterpretato per esempio una classica cassettiera bianca e nera, deformandola con grazia per farla ondeggiare sul proprio asse. Attaccando una sola variabile dell'equazione modernista invece che molte nello stesso momento, Kuramata ha suscitato sorpresa e ispirazione, e lo ha fatto imparando dalla tradizione locale. Il suo esempio è utile per comprendere che, dal nostro punto di vista, nell'equazione tra nazionale e globale, il termine 'nazionalismo' coincide con cultura dei materiali e produzione spontanea per soddisfare i veri bisogni locali. Kuramata ha lasciato una solida scuola di pensiero e azione che conta discepoli in tutto il mondo. Tra questi nessuno è più incisivo di Tokujin Yoshioka, che ha avuto la fortuna di lavorare con lui. Yoshioka incarna al meglio la sua instancabile ricerca nel mondo della forma e, soprattutto, nella tecnologia e nei materiali. Guardando le sue sedie bianche o trasparenti, si capisce che la forma è pressoché l'ultima preoccupazione del designer, e la funzione l'ultimissima, mentre tutto è incentrato sulla sorpresa del processo. Honey Pop è realizzata con carta a nido d'ape ed è consegnata piatta. Una volta aperta come una fisarmonica, accoglie l'impronta del primo corpo che vi si siede, creando un'impronta permanente, quasi un marchio di proprietà.
Lo stesso senso di meraviglia per il comportamento dei materiali è suscitato dalla Chair that Disappears on a Rainy Day, una panca per esterni in vetro (o meglio, l'ombra di una panca) disegnata per la nuova area di Roppongi Hills a Tokio e ora in uso al Musée d'Orsay, a Parigi. Oppure dalla sedia Pane, così chiamata perché deve essere cotta al forno, o ancora dal progetto Venus, una sedia prodotta facendo crescere cristalli naturali, 'la prima sedia al modo capace di crescere'. Venus, la sedia che cresce, crea un legame ideale tra Yoshioka e un altro gruppo di designer ossessionati dalla medesima idea, malgrado si affidino a un software per la realizzazione delle proprie creazioni. CoReFab #71 di Ammar Eloueini (prodotta nel 2006 e stampata in 3D usando resina poliammidica) è infatti, secondo il suo autore, 'una sedia dal numero illimitato di possibilità'. #71 nasce al computer al pari di un personaggio animato ma, come i fotogrammi di un film, l'animazione può essere messa in pausa in qualsiasi momento per 'catturare' una particolare versione da destinare alla produzione trasferendo il fermo immagine digitale a una macchina per la sinterizzazione laser. Per la sua Bone Chair (2006)
Joris Laarman ha utilizzato invece un software di ottimizzazione in 3D, originariamente progettato per componenti di carrozzeria d'automobile. Questo software replica la crescita biologica e applica le sue regole a oggetti di ogni tipo come per esempio la crescita delle ossa. Secondo tale processo le aree non esposte ad alte sollecitazioni sviluppano meno massa, mentre quelle più esposte ne sviluppano di aggiuntiva per far fronte al carico; nell'eliminare le parti superflue la struttura, ottimizzata, risponde alla funzione con il minimo quantitativo di materiale.
La passione per la tecnologia e i materiali emerge anche nel lavoro di Oskar Zieta e Bertjan Pot. Entrambi rivoluzionano gli archetipi dell'arredo usando tecniche completamente nuove, come nello straordinario sgabello a tre gambe in lamiera soffiata di Zieta o nella versione in fibra di carbonio di una classica sedia di Eames firmata da Pot. Come stratagemma progettuale, la caricatura/omaggio/dissacrazione tuttavia è spesso abusata e può rivelare un pericoloso vuoto di idee. Il progetto Smoke di Maarten Baas, nato come esperimento intellettualmente interessante, si è mutato in una serie limitata e, peggio ancora, in un prodotto, perdendo per strada il suo valore di 'manifesto'. Se le sedie-manifesto spesso indicano nuove direzioni espressive (i lavori di Jurgen Bey e Nacho Carbonell ne sono un buon esempio) nel campo delle sedie 'utilizzabili' è difficile imbattersi in tipologie completamente nuove.
Ancora una volta Grcic ci viene in soccorso con la sua sedia 360°, l'unico prodotto in questa panoramica a essere dotato di una funzione precisa. Disegnando una sedia esplicitamente scomoda, Grcic costringe l'utilizzatore e cambiare posizione, a sistemarsi e a muoversi: un accorgimento mirato a garantire maggior benessere. Il contrario di un prodotto che risponde chiaramente all'idea di 'funzione', ma allo stesso modo legato giocosamente all'idea di movimento continuo è invece Spun di Thomas Heatherwick, una specie di trottola da luna park. Nel caso poi di XXXX_Sofa e XXXX _Stool di Yuya Ushida recentemente presentati al Salone, il processo di costruzione (basato su otto elementi stampati a iniezione) e la filosofia 'fai-da-te' conferisce al progetto una credibilità innovativa squisitamente contemporanea, malgrado l'atto del sedersi sia compiuto tradizionalmente. Indiscutibilmente anche il movimento 'fai-da-te' si è esteso al mondo dell'arredamento con episodi importanti come 100 chairs in 100 days di Martino Gamper, la riedizione dell'Autoprogettazione di Enzo Mari e una serie di tentativi espressi da un club di appassionati di re-interpretazione creativa di pezzi IKEA (vedi Domus 948, giugno 2011, pag. 100). Questi esempi parlano di un mondo diverso in cui i mobili non rappresentano più un acquisto superficiale usa e getta, ma seguono piuttosto la richiesta di un design più robusto, migliore, durevole e permanente, perciò più corretto sul piano etico. In alcuni casi questo tipo di design rappresenta quella terra di mezzo che in questo saggio, fatto di casi estremi, non abbiamo esplorato: il lavoro di professionisti affidabili come Antonio Citterio, Piero Lissoni o Patricia Urquiola, le cui sedute possono durare una vita intera.
Rimane da chiedersi: il design conserva una qualche importanza, ora che abbiamo così tanti pensieri, ben più seri, su cui concentrarci? Una bella sedia è capace di varcare il limite della sua immediatezza per diventare qualcosa di più, per quanto bella e comoda? Uno spazio ricco di qualità può insegnarci qualcosa sulla vita, e possibilmente informare le nostre azioni future in modo positivo? La risposta è sì, a volte. Quando questi sono veramente significativi. Qualsiasi designer che riesca a farci dono di un'esperienza profonda, tale da apportare delle trasformazioni, oppure sia capace di offrire elementi durevoli e comodi, in grado di creare familiarità e relazione, aggiunge qualcosa di speciale al mondo. Dipende da noi, che li usiamo, rifiutare tutto ciò che è meno di questo. Paola Antonelli, Critico e curatore, MoMA