Ethel Baraona: Negli ultimi mesi qui abbiamo potuto vedere le mostre Clip/Stamp/Fold, Environments and Counter Environments, Italy: The New Domestic Landscape, MoMA 1972 e ora EcoRedux 02. Si può parlare di una nuova tendenza all'"archeologia dei media"? Potete approfondire il tema della reale importanza ai giorni nostri di questi movimenti degli anni Sessanta e Settanta?
Lydia Kallipoliti: Sì, si può davvero parlare di "archeologia dei media" quando citiamo tutte queste mostre. I curatori di queste esposizioni condividono l'idea che i movimenti del dopoguerra abbiano una grande risonanza nel dibattito contemporaneo e siano uno strumento importante per comprendere che cosa sta accadendo oggi nel mondo dell'architettura. Tra questi curatori ci sono anche rapporti a livello personale. All'università di Princeton Mark Wasluta e io eravamo allievi di Beatriz Colomina, che aveva un ruolo importante nell'elaborazione della storia dei media come prassi importante per il presente. E poi condividiamo l'interesse per l'ecologia, per la controcultura e per la storia dell'avanguardia, settori che sono stati uno dei motori di tutti questi progetti.
Anna Pia Català: È fuori di dubbio che le questioni sociopolitiche della metà del XX secolo siano simili alle nostre preoccupazioni di oggi. E queste offrono l'occasione di guardarsi indietro, di rivisitare questi progetti e di riflettere su quanto possiamo imparare da essi per applicarli alle proposte progettuali attuali, o per lo meno per trarne indicazioni importanti. Soprattutto di fronte all'attuale situazione economica e al dibattito sull'energia nel mondo.
LK: Forse la si può mettere così. Ogni crisi è un'occasione di reinvenzione. È in questi nodi storici che gli architetti iniziano a ripensare il loro ruolo. Redux in inglese vuol dire "ritorno" ed EcoRedux si riferisce al ritorno della sensibilità ecologica degli anni Sessanta e Settanta, che furono un'epoca molto intensa dal punto di vista sociopolitico. Dopo la seconda guerra mondiale nel dibattito architettonico si affermarono parecchie posizioni radicali. L'analogia di queste prospettive con le proposte di oggi è quasi prodigiosa. Perciò possiamo forse parlare di una specie di revival o di ritorno, dato che lo stesso tipo di movimenti sta iniziando a rifare la sua comparsa come in un déjà-vu.
Ferme restando tutte queste constatazioni, potete dirmi come avete dato inizio al progetto?
LK: Il progetto è cominciato come parte della mia ricerca di dottorato e l'obiettivo era creare una nuova risorsa nel campo della storia e della pratica del progetto ecologico. Fondamentalmente, si tratta di un archivio che riunisce un centinaio di progetti, come una banca dati di materiali ecologici e di esperimenti degli anni Sessanta e Settanta. I progettisti di oggi possono usare questa banca dati come strumento. Possono usufruire di parti del nostro archivio: possono riutilizzare e riciclare le informazioni e le idee per produrre nuovi progetti.
Anna, ho visitato qualche mese fa la mostra Architectures without Place (1968-2008) ed è stato affascinante scoprire tanti progetti catalani di quell'epoca. Pensi che ci fosse un rapporto con i progetti di EcoRedux?
APC: In quegli anni, c'era un movimento culturale complessivo, che condivideva non solo idee ma anche ideali. Ma dobbiamo pensare soprattutto che, qui in Catalogna, per una parte di quel periodo siamo stati sotto la dittatura di Francisco Franco, e sotto una dittatura gli architetti non potevano comunicare liberamente con il resto del mondo.
LK: Certo. Mentre lavoravo alla ricerca mi sono imbattuta in diverse situazioni aneddotiche relative al tema degli hippie. Ci sono persone che volevo intervistare che ancor oggi vivono in quel modo. In parecchie occasioni mi sono recata "in mezzo al nulla", usando ogni mezzo di trasporto immaginabile, comprese grandi scarpinate in montagna e in altri ambienti naturali. Raccogliere le testimonianze per EcoRedux è stato una specie di pellegrinaggio. Molti degli architetti che ho intervistato erano sinceramente preoccupati dell'ambiente e sentivano la necessità di continuare a vivere in quel modo, secondo le loro convinzioni, lontano dalle città.
Leggendo lo scritto Acid Visions di Felicity Fox per il Grey Room Magazine abbiamo scoperto che vi si parla anche del rapporto tra la sperimentazione di droghe come l'LSD e la ricerca d'architettura e di design di quei tempi, che ne pensate?
APC: Architetti e designer usavano la droga come una specie di strumento, perché capivano che li rendeva più creativi e arricchiva la loro sensibilità, ma non credo che sia questo il punto fondamentale, perché era più che altro parte dello spirito dell'epoca, della cultura del momento.
LK: Sono d'accordo con Anna. Certi architetti che ho intervistato parlano esplicitamente dell'uso della droga ma per loro si trattava di una specie di pillola o di utensile creativo. Certo, l'uso della droga all'epoca era cosa comune negli ambienti underground, ma la droga era anche mediatrice tra differenti livelli di coscienza, di visione e di conoscenza. Oggi può essere scandaloso, ma in quegli anni era molto comune.
APC: Attualmente, grazie all'uso di strumenti di creazione digitali, possiamo andare più a fondo nello studio della morfologia e dei sistemi biologici dal punto di vista della struttura e delle prestazioni, e comprendiamo che non stiamo andando contro la natura, ma stiano imparando dalla natura.
Questa prospettiva mi fa pensare alla vaghezza dei confini tra ricerca tecnologica, architettura generativa e tecnofeticismo. Che ne pensate?
LK: La conquista della Luna e tutti i rapidi progressi della ricerca scientifica nel corso degli anni Sessanta e Settanta hanno avuto un influsso profondo sul dibattito dell'architettura dell'epoca. Fu in quegli anni che Reyner Banham scrisse Ambiente e tecnica nell'architettura moderna, dove, come in molti altri scritti, parla dell'integrazione di dispositivi meccanici negli edifici. Tuttavia, come possiamo constatare in altre fondamentali opere mediatiche di cultura creativa, in film come Barbarella e 2001: Odissea nello spazio, il dibattito non si limitava al tecnofeticismo, ma rivelava un nuovo interesse per l'uso della cibernetica come parte del programma di lavoro dell'architettura e per la reinvenzione degli stili di vita e delle convenzioni sociali tramite la tecnologia.
APC: È vero che con gli attuali strumenti computazionali talvolta gli architetti si concentrano più sulle strategie formali che su quelle prestazionali. E quando si concentrano sulle prestazioni di solito lo fanno per ottimizzarle. Ma l'affermazione che stiamo esprimendo qui è che l'ecologia non coincide con la sostenibilità e non ha una forma specifica. Anzi, l'ecologia è collegata alla cibernetica e alla teoria dei sistemi, ed è tramite l'uso di strumenti computazionali che siamo in grado di elaborare modelli architettonici capaci di entrare in rapporto con l'ambiente dal punto di vista strategico. Anche se il confine tra architettura generativa e tecnofeticismo è sfumato, oggi possediamo strumenti che ci permettono di analizzare e di capire come l'ambiente reagisce all'uso di certi materiali e di certe forme, il che è decisamente importante per la creazione di una nuova architettura.
E per finire potete parlarmi del modo in cui ricicliamo le idee?
LK: Le idee arrivano lontano e in questo viaggio vengono riprodotte, tradotte e interpretate secondo gli interessi del momento. Riciclare le idee rende possibile la trasformazione dei materiali e delle costruzioni ideologiche esistenti, e dà all'architettura il suo potenziale creativo.