“Scoprii inoltre di non essere un professionista tipico, ma una persona che nutre interessi in più settori. In molti dei miei ultimi libri, l’architettura è usata solo come pretesto per parlare di altri argomenti: la fisica, la società, la comunicazione, la teoria dei grafi, l’economia ambientale, perfino la politica. In tutti questi campi mi hanno aiutato la mia ingenuità e la mia mancanza di erudizione. Un amico, il saggista Robert Jungk, mi chiamava ‘il bambino che ha scoperto che il re è nudo’.”
Nel 2014 Yona Friedman sceglieva queste parole per parlare di sé nella quasi-introduzione a The dilution of architecture, lavoro da lui curato assieme a Manuel Orazi a valle di quasi cinquant’anni di attività. Orazi per contro, presentando il libro su Domus l’anno successivo, faceva il ritratto di
“(…) uno dei pochi grandi produttori di concetti — quello che per Gilles Deleuze dovrebbe essere il compito dei filosofi: (…) Friedman si staglia come una sorta di baluardo, da un lato contro il cinismo professionale, dall’altro contro tanta miseria intellettuale accademica.”
(L’universo erratico di Yona Friedman, Domus 993, luglio—agosto 2015)
I lavori comparsi negli anni recenti sono stati ampiamente retrospettivi, ma questo era ben lontano dal raccontare un percorso ideativo giunto al capolinea, anzi. Negli ultimi vent’anni Friedman era nel pieno di una sua nuova fase, dove i principi e le visioni con cui aveva fatto da basso continuo alle onde radicali del dopoguerra si riversavano in una modalità nuova di comunicazione e condivisione di temi. Dalla fine degli anni ’90 Friedman conosceva una nuova diffusione e fortuna critica, era stato tradotto in nuove lingue, e aumentava la sua presenza in un mondo fatto di riviste, scritti, comunicazione e pratiche curatoriali che diventavano sempre più un suo campo preferenziale di espressione ed azione.
Reti, libri e strutture spaziali. Yona Friedman dall’archivio Domus
Ricordiamo le escursioni del padre dell’architettura mobile attraverso gli spazi dell’autodeterminazione, dalla Ville Spatiale al suo appartamento personale.
Yona Friedman, Huangpu River-center project, Shanghai. Vista prospettica. In Domus n. 886, novembre 2005
Il fax inviato da Yona Friedman a Park Books, con il suo testo della prefazione al volume Yona Friedman — The Dilution of Architecture. In Domus n. 993, luglio 2015
Yona Friedman, Ville spatiale above the existing city, 1958. ©Getty Research Institute. In Domus n. 993, luglio 2015
Yona Friedman, Ville spatiale made of elevated blocks. ©MoMA Museum of Modern Art. In Domus n. 993, luglio 2015
Yona Friedman, Capacity ratio between spatial clusters and current clusters, 1958. Courtesy Marianne Homiridis. In Domus n. 993, luglio 2015
Yona Friedman, Cartoline postali (Venezia), 2009. Courtesy Galleria Massimo Minini
Yona Friedman, Cartoline postali (Venezia), 2009. Courtesy Galleria Massimo Minini
Yona Friedman, pagina da Idee in libertà. In Domus n. 879, marzo 2005
Yona Friedman, Huangpu River-center project, Shanghai. Pagine da Domus n. 886, novembre 2005
Yona Friedman. Pedestrian Bridge in Shanghai, scenario A. In Domus n. 907, ottobre 2007
Yona Friedman, “Half-car story” e “Train of cars”. Pagine da Domus n. 886, novembre 2005
Yona Friedman, l’Europa come città-continente. In Domus n. 896, ottobre 2006
Yona Friedman, Wall against immigration, 2006. “Ci sono Paesi che innalzano muri contro l’immigrazione. Usano quei muri per costruirvi dentro un insediamento abusivo”. In Domus n. 898, dicembre 2006
Veduta interna dell’appartamento parigino di Yona Friedman. In Domus n. 886, novembre 2005
Vedute interne dell’appartamento parigino di Yona Friedman. In Domus n. 886, novembre 2005
Yona Friedman tra i suoi libri e i suoi modelli, a Parigi. In Domus n. 952, novembre 2011
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- Giovanni Comoglio
- 25 febbraio 2020
Presenza costante già in precedenza, citato sempre come attore del suo tempo, alla cui costruzione, “là fuori” stava partecipando, trasporta infine in Domus quei principi con cui era divenuto pensatore traente dell’architettura contemporanea: la figura interpretativa della rete, propria di un mondo post-CIAM dove Mark Wigley aveva identificato una vera network fever; le visioni centrate sugli individui come soggetti capaci di legame, più che su una collettività vista come grande individuo; l’adattabilità/editabilità dello spazio come dispositivo. Era poi quest’ultimo il principio sulla cui base lui, ancora sconosciuto aveva presentato al CIAM di Dubrovnik (1956) la sua Architecture Mobile.
Quindi l’architetto delle Utopie Realizzabili (quello che nondimeno Agnoldomenico Pica aveva definito “(…) autore di proposizioni utopistiche, talvolta alquanto orripilanti” nel 1971) ci metteva finalmente a parte di un grande corpo riflessivo costituitosi e divenuto iconico lungo decenni di didattica, e soprattutto didattica visuale: quasi tutte le sue espressioni sono in effetti filtrate dal metodo espressivo di una scrittura condivisibile dai più, buona per la lavagna.
L’abitante dovrebbe avere il diritto ed essere messo nella condizione effettiva di poter scegliere il luogo e la forma del suo ambito abitativo, di trasformarlo e di migliorarlo continuamente.
Una prima lezione, nel 2005, riguarda gli elementi costitutivi dello spazio editabile, base da sempre dell’architecture mobile a varie scale. Pannelli a catena, scatole mobili, fogli accartocciati, treni: figure, dispositivi, “ (…) idee il cui denominatore comune sta nel rendere facile a chi abita una casa rimaneggiarla direttamente in loco, senza disegnare piante, senza utilizzare macchinari pesanti, senza demolire e ricostruire pareti e così via” (Idee in libertà, Domus 879, maggio 2005).
Queste formulazioni salgono poi alla scala della città nei progetti di ville spatiale che Friedman propone per Shanghai a pochi anni dall’arrivo dell’Expo: nel concepire la città-ponte che estenderà Nanjing road sul fiume Huangpu, Friedman approfitta per ricordarci come:
“(…) l’abitante dovrebbe avere il diritto ed essere messo nella condizione effettiva di poter scegliere il luogo e la forma del suo ambito abitativo, di trasformarlo e di migliorarlo continuamente. La conformazione spaziale della città cambierebbe dunque anno dopo anno, e l’outline urbano non sarebbe mai definitivo: questa è ‘architettura mobile’.”
(Chez Friedman. 3.Friedman Shanghai, Domus 886, novembre 2005)
È una visione che prenderà forme più definite nel 2007, con un moltiplicarsi di prototipi per la città-ponte shanghainese, strutturati su diversi scenari di operabilità da parte dei pedoni. (Portfolio — Yona Friedman. Pedestrian Bridge in Shanghai, Domus 907, ottobre 2007)
L’Unione Europea, nel presente e nel futuro, è forse la più importante “città-continente” della storia. (…) questa rete fisica corrisponde a una rete a sua volta immateriale, ma con la medesima struttura. Il suo abitante, quindi, trae la propria esistenza non solo dal suo proprio nucleo, ma anche dall’insieme di tutti i poli urbani.
L’interazione tra diversi flussi, il flusso come generatore dello spazio urbano, a questo punto non potevano che divenire estensione di questi ragionamenti: erano stati infatti oggetto di molti manuali visuali, veri storyboard visionari redatti da Friedman nei decenni. E’ così che Domus dà spazio nel 2005 ai suoi prototipi di mezze-automobili, componibili in unità o interi treni. (Chez Friedman. 2.Friedman Cars, Domus 886, novembre 2005)
La cifra trans-scalare delle visioni di Friedman — compagna ed erede di tutta una famiglia di teorie riconducibili ai modelli di Richard Buckminster Fuller sul mondo come rete — arrivava poi fino a combinare letture di città e geografia territoriale sotto la stessa chiave interpretativa della rete di interazioni. Ne nascevano narrazioni come quella dell’Europa come città-continente, entità opposta alla megalopoli indistinta, costituita anzi da una interazione di nodi medio-piccoli resa possibile da una infrastruttura dei trasporti (treni) solida e articolata. (Chez Friedman. 2.Friedman Cars, Domus 886, novembre 2005 ).
Però non è possibile separare la ricerca di Friedman dalla sua natura personale, raccontare Friedman solo attraverso i progetti: l’uomo-Friedman era parte imprescindibile nel generare la figura-Friedman, tanto importante nel pensiero contemporaneo e tanto potente nello stimolare il dibattito.
Lui stesso infatti si è esposto su Domus più volte in questa sua cifra di espressione personale, con contributi-manifesto grafici oppure presentando una serie di spazi caratterizzati dalla sua presenza individuale, come il suo alloggio parigino, la biblioteca di cui fa un unpacking nel 2011 o Merz World, il progetto a forte matrice spaziale a cui aveva lavorato con Tomás Saraceno per il Cabaret Voltaire, spingendo il Merzbau di Kurt Schwitters a un nuovo livello di investigazione.
“Un tempo viaggiavo molto e spesso ritornavo con materiali curiosi: oggetti comuni, quasi mai costosi. Con essi feci delle installazioni rendendoli diversi.
Lo spazio che ne deriva è dunque il mio mondo personale. Non credo che potrei fare questo per altri. Non pianificato, è risistemato continuamente: questo chiede tempo…
Una volta qualcuno mi chiese se faccio uso di droghe. Certamente no, non ne ho bisogno per ‘creare il mio mondo’.”
(Chez Friedman. 1.Friedman Home, Domus 886, novembre 2005)
Questo era il modo di Friedman di descrivere il suo spazio, con la stessa forza nel rinnegare qualsiasi autorità superiore — quando si trattava di dare all’abitante il potere di creare il proprio spazio — che si ritrova nei suoi giudizi sull’immaginario letterario come su questioni globali e ambientali.
Nell’estrarre La montagna incantata dai suoi scaffali nel 2011, infatti, riesce a dire:
“Non mi incuriosiscono in particolare i personaggi, come Hans Castorp, sulle cui idee e speculazioni intellettuali sono stati scritti interi saggi, ma la qualità sorgiva dell’invenzione dell’ambiente fisico e morale, inatteso e sorprendente. Qualcosa del genere succede con la fantascienza.”
(Unpacking my library: Yona Friedman, Domus 952, novembre 2011)
E nell’esplorare le questioni climatiche in vista di Merz World:
“Siamo riusciti a convivere coi mutamenti climatici migliaia di anni, perché ora no? La cosa più semplice è lasciare che accadano. (…) Il modo in cui alimentiamo noi stessi e il nostro stile di vita è la vera ragione del cambiamento climatico. Lasciamo allora che il mondo si sviluppi a modo suo e cambiamo invece le nostre vite.
(…) Noi trattiamo gli arredi di un appartamento come un modello e li riproduciamo in scala naturale. La gente può poi modificarli come desidera. Dovremo riscaldare solo lo spazio che utilizziamo realmente. Usare meno energia non è solamente economico: aumenta anche l’indipendenza.
(…) disponiamo di una tecnologia sofisticata ma non sappiamo come gestirla. Ecco perché preferisco materiali semplici come nella tecnologia pre-sofisticata che avevamo in passato.”
(A Cloud Spatiale City, Domus 936, luglio 2010)
Sono visioni in cui è sempre la pratica a poter modificare il mondo, visioni al contempo sempre narrative, immaginifiche, a volte fantascientifiche come un certo panorama letterario a lui caro e a lui contemporaneo (la selezione dalla sua biblioteca continuava con Fahrenheit 451) : in ogni caso le visioni di Friedman restano impossibili da canalizzare e confinare nel solo mezzo testuale o verbale, perché il suo dominio è sempre stato quello dello spazio percorso, dello spazio visibile, dello spazio percepito, modificato dall’abitare. Per questo la sua conversazione su Merz World si conclude come segue, e con lei l’esplorazione degli archivi di Domus alla ricerca del padre della ville spatiale:
“ (Friedman:) ‘Questa è stata la nostra conversazione. ma come accade con le registrazioni audio, gran parte del contenuto è andata perduta. Parlando, ho mostrato disegni e oggetti. C’è poi la mia mimica e la mia personale pronuncia, ma tutto ciò non è visibile in un testo scritto.’
Perciò, caro lettore, completa il testo come più ti piace. Perché comunicazione significa incomprensione organizzata.”
Foto di anteprima: Yona Friedman tra i suoi libri e i suoi modelli, a Parigi. In Domus n. 952, novembre 2011