Il racconto della Maison à Bordeaux di Oma, dalle pagine di Domus

25 anni fa furono Beatriz Colomina e Blanca Lleó a creare in dialogo una narrazione di una casa firmata Rem Koolhaas che sembra nata per essere raccontata, tra film e mitologia dell’architettura contemporanea.

Nel panorama culturale dell’architettura, è diventata celebre negli ultimi 15 anni la sequenza di un film di Ila Beka e Louise Lemoine, dove la governante di una casa contemporanea emerge letteralmente da un pavimento, da una porzione di pavimento sollevata da un pistone. La casa è quella progettata da Rem Koolhaas / Oma, assieme all’ingegnere ex-vicedirettore di Arup Cecil Balmond, a Floirac, presso Bordeaux. È uno di quegli edifici di Koolhaas che diventano manifesti subito dopo i suoi libri, con le sue soluzioni spaziali, formali e – visibilmente – strutturali, oggetto da subito di racconti,  e di numerose rivisitazioni. È proprio un racconto quello con cui, nel gennaio 1999, Beatriz Colomina e Blanca Lleó esplorano e decostruiscono la casa e il suo significato per Domus, un racconto in dialogo comparso sul numero 811.

Domus 811, gennaio 1999

Casa Unifamiliare, Floirac, Bordeaux, Francia

S, M, L, XL è il libro, l’opera epocale sull’architettura degli anni Novanta di Rem Koolhaas. La villa a Bordeaux è S, small. Essa illustra perfettamente il metodo del dialogo totale con il committente, il rapporto critico e giocoso con gli elementi e i temi dell’architettura. Un’architettura che nasce presumibilmente soltanto dall’obbedienza incondizionata ai suoi presupposti fondamentali, e tuttavia è filtrata attraverso la conoscenza della storia e la rielaborazione completa delle sue metafore. Il ‘nuovo’ in architettura è ciò che crediamo di sapere ma non abbiamo ancora visto così. La villa di Bordeaux, finora pubblicata solamente in maniera incompleta, è un capolavoro definitivo di Oma.

Domus 811, gennaio 1999

“Il cuore era una macchina”, una casa a Floirac

Il suo primo serio tentativo di andarla a vedere fu nell’estate del 1997. Erano stati invitati a un convegno a Santander. Lei aveva accettato per motivi sentimentali. Sua madre, da bambina, passava l’estate a Santander. Lei non c’era mai stata. Voleva vederla. Al tempo stesso l’occasione suscitava in lei reazioni ambivalenti. Succedeva sempre così, quando doveva fare qualcosa di adulto nel suo Paese, la Spagna era il posto giusto per andare in vacanza. 

Dal momento in cui accettarono l’invito, lei si mise ad architettare occasioni di allontanarsi da Santander. Un viaggio nei dintorni, un’escursione, qualcosa che eliminasse quel senso di claustrofobia che era quasi certa avrebbe provato. Vide su una cartina Bordeaux e lo convinse che, anche se avevano solo un giorno e mezzo per andare e tornare, percorrere novecento chilometri per vedere una casa non era poi un’impresa. Tutto il resto era contro di lei: l’Eta aveva appena ucciso qualcuno e c’erano manifestazioni dappertutto. Il traffico nei paesi baschi era in crisi. Erano imbottigliati. A quanto pareva, lui non se ne preoccupava: “Santander è talmente bella... Non mi avevi detto che era così bella... Si mangia bene, si beve bene”. La Spagna gli faceva sempre questo effetto: lo trasformava in edonista. Lei pensò che non si dovrebbe mai acconsentire a far nulla nel proprio Paese.

Pochi mesi dopo ci ricascò. Aveva accettato di prendere parte a un convegno a Saragozza. Non c’era nessun pretesto per sostenere di essere in vacanza a Saragozza in novembre. Ancor prima di arrivarci, già architettava modo di allontanarsi. Inevitabilmente vide Bordeaux sulla cartina. Ora era diventata un’ossessione. Convinse Blanca, che teneva un intervento allo stesso convegno, a fare il viaggio insieme con lei. Sapeva che sarebbe stata una buona compagnia. Partirono la sera, dopo i rispettivi interventi, saltando la cena e guidando di notte, come se fossero in fuga. Era esilarante, le ricordava altri tempi. Voleva arrivare alla frontiera, ma lungo la strada presero la direzione di San Sebastián. “Si mangia sempre bene”, affermò Blanca, e poi si ricordò di un albergo sul golfo dove una volta, molti anni prima, era stata con un amante. In ogni modo San Sebastián è già un altro paese. 

La mattina seguente, dopo aver visto i due cubi inclinati del Kursaal di Moneo in costruzione, partirono per Bordeaux. “Promette di essere il suo edificio più radicale”, concordarono. “Se solo si riuscisse a dargli lo stesso aspetto del modello”. Bordeaux. Scesero all’Hôtel St. James di Nouvel, a Floirac, che è la cosa divertente da fare. Aveva i letti rialzati: alla Le Corbusier. Starci sdraiati era come galleggiare nel paesaggio che si apriva fuori della finestra orizzontale d’angolo che dava sulla lunga, sottile, piscina nera. Erano euforiche. Presero un caffè e andarono in macchina fino alla casa. Era domenica pomeriggio. I proprietari avevano visite. Fuori della casa, dove parcheggiarono, venne ad accoglierle un ragazzino. Solo molto più tardi si accorsero che era una ragazzina, la più giovane dei figli della coppia. La donna era nel cortile. Era coperta di fango come se stesse facendo del giardinaggio. Ma non vedevano nessun giardino. Le salutò in spagnolo, le invitò a entrare e offrì caffè e torta. Salirono al primo piano per conoscere l’uomo, che sedeva con gli ospiti al tavolo da pranzo, nella casa di vetro. Parlava spagnolo. In passato aveva lavorato con i paesi baschi. Offrì loro da bere.

Domus 811, gennaio 1999

Non riuscirono a stare sedute a lungo. La luce era così bella. Non sarebbe durata, e Blanca voleva fare delle fotografie. Uscirono. Avevano il capogiro. Si arrampicarono sulla collina fuori della parete di vetro per vedere che cosa c’era dall’altra parte. Prima di avere il tempo di accorgersene, erano nel fango fino alle caviglie. Aveva piovuto molto, nei giorni precedenti la loro visita. Lei trovò divertente che Blanca fosse tanto agitata. L’aveva sentita mormorare tra uno scatto e l’altro: “Che fortuna essere un architetto così bravo!”. 

Non aveva mai sentito parole simili uscire dalla bocca di un architetto. E lei? Perché aveva escogitato piani tanto complicati per vedere una casa in costruzione? Non che non le interessassero le opere contemporanee. Ma non se ne era mai occupata con lo stesso zelo che riservava alle case mitiche che popolavano la sua immaginazione – come quando aveva ricattato una certa persona per farsi portare a vedere Casa Tugendhat a Brno dopo una lezione a Vienna, oppure Casa Curruchet a La Plata dopo una lezione a Buenos Aires, oppure ancora Casa Farnsworth a Plano, in Illinois, dopo una lezione a Chicago, o la E.1027 di Cap-Martin da Barcellona... Aveva preso senza rendersene conto l’abitudine di farne una condizione ogni volta che teneva lezioni in qualche luogo anche lontanamente prossimo a uno degli oggetti del suo desiderio. Era un incentivo che, ne era sicura, avrebbe migliorato le sue prestazioni.

Della casa di Floirac non aveva neppure l’intenzione di scrivere. Non aveva mai scritto di opere contemporanee. Detestava quel che si dice “la critica”. La pretesa che un critico contemporaneo di un’opera potesse interpretarla in modo sensato si era fatta sempre meno sostenibile. E comunque preferiva tendenzialmente i racconti degli architetti al pedante linguaggio dei critici. Non le interessava neppure fare fotografie (ma lo fece, per tenere in piedi il dialogo con Blanca). Trovava regolarmente più interessanti le fotografie ufficiali, il modo prescelto dall’architetto per raffigurare la propria casa. Voleva solo vedere. Ma perché?

‘Contrariamente a quanto lei potrebbe aspettarsi’, disse il marito all’architetto, ‘non voglio una casa semplice, voglio una casa complessa, perché sarà la casa a definire il mio mondo’.

La seduzione arrivò attraverso un racconto, quasi un abbozzo di sceneggiatura: “Una coppia viveva in un vecchissima, bella casa di Bordeaux. Otto anni fa espressero il desiderio di una casa nuova, una cosa molto semplice. Si rivolsero a vari architetti. Poi il marito ebbe un incidente d’auto. Fu vicino a morire, ma si salvò. Ora vive su una sedia a rotelle. Due anni dopo l’incidente la coppia iniziò a pensare ancora alla casa. Ora la nuova casa poteva riuscire a liberare il marito dalla prigione che erano diventate la vecchia casa e la città medievale in cui vivevano. ‘Contrariamente a quanto lei potrebbe aspettarsi’, disse il marito all’architetto, ‘non voglio una casa semplice, voglio una casa complessa, perché sarà la casa a definire il mio mondo’”.

Aveva letto il racconto da qualche parte, e l’aveva colpita in qualche modo. Non sapeva dire esattamente perché. Era come se alimentasse alcune delle sue fantasie, o dei suoi timori più oscuri, come talvolta succede con i film. Voleva vedere questo film. Provava gratitudine per essere stata ammessa a visitare il set. Si sentiva un spia, una voyeuse. Riflettendo si rese conto che era questa la strada attraverso la quale si entra sempre nelle opere del gruppo Oma: un racconto. 

Domus 811, gennaio 1999

Prima di qualunque costruzione, l’Office for Metropolitan Architecture venne lanciato da un romanzo, Delirious New York (una serie di spezzoni di film nella lettura di Charles Jencks), e, quando Oma iniziò a costruire, Koolhaas, che prima di studiare architettura alla AA era stato sceneggiatore, cominciò a presentarci narrazioni. Erano sempre le case a suscitare i copioni migliori. In Villa dall’Ava, per esempio, c’era la storia del committente che aveva rischiato di farsi arrestare all’aeroporto quando, mentre aspettava l’architetto, aveva litigato con un poliziotto del servizio di sicurezza. Certe volte i copioni non riguardavano neppure un edificio di Oma, come nel caso di La casa che fece Mies, un capriccio sulla Casa Kröller-Müller, che è il racconto più intimo di Koolhaas. Era il suo preferito. Blanca pensava che il migliore fosse ancora quello della piscina galleggiante moscovita che arriva a Manhattan nel finale di Delirious New York. Poteva essere. Ma persino quel capriccio terminava come il tetto di una casa.

Blanca Lleó: Ho le scarpe che pesano cinque chili l’una.
Beatriz Colomina: Io ho la sensazione di trascinarmi mezza collina incollata ai piedi.
La collina è artificiale, è opera di un paesaggista. Ha lo scopo di proteggere la casa dal rumore dell’autostrada.
Una collina artificiale in cima a una collina naturale, quella su cui la casa siede, s’installa.

Domus 811, gennaio 1999

Eppure è curioso che nella costruzione della casa i ruoli delle colline si invertano: il rilievo naturale è diventato insediamento umano, civile e colto, mentre la collina realizzata dall’architetto sembra parte dell’ambiente naturale. L’altura artificiale si congiunge con il piano d’alluminio del soggiorno. Come a Robin Hood Gardens degli Smithson, il carattere pittoresco del rilievo si contrappone, rafforzandola, alla ragione geometrica dell’architettura. Questa casa è un patio o un padiglione? Dal piano terreno, entrandoci, è una casa a patio...
Sì una casa a doppio nucleo, quasi come quelle che Breuer proponeva degli anni ’50...
Ma da qui, dalla cima della collina, appare come un padiglione nel paesaggio, come Casa Farnsworth o Casa Eames.
Casa Eames è tanto un patio quanto un padiglione. Lo dice Alison Smithson da qualche parte...
Ma qui non c’è un solo patio. Ce ne sono due. Beh, in realtà tre. Addirittura quattro, se si considera il pozzo dell’ascensore. Tre patio che separano quattro case. Una per la coppia, una per i figli, una per gli ospiti e una per i custodi.
Una casa a patio che in realtà è più case con più patio.
Questo microuniverso spugnoso riflette le articolazioni complesse delle esistenze umane, i loro incidenti e i loro legami.
Hmmmm.
Tutti i patio separano. Solo uno, il pozzo dell’ascensore, collega, ricuce il mondo disperso degli abitanti.
Hai notato che stanno ciascuno nel suo mondo?
Sì, sono tutti come la casa.
La donna si trova nella casa inferiore. La ragazzina sta dall’altro lato del patio, nella casa del custode – la sento esercitarsi al pianoforte. Il figlio maggiore sta parlando con un amico nella casa di vetro esterna. L’uomo sta nella casa di vetro con gli ospiti. Di tanto in tanto uno di loro capita nel soggiorno, come per controllare che tutto sia ancora al suo posto, e poi se ne va di nuovo... Come quando la ragazzina ha fatto il giro della stanza chiedendo, a distanza, se Rem parlava anche spagnolo, e poi se ne è andata.

Domus 811, gennaio 1999

O come quando la donna ha portato su caffè e torta e poi se ne è andata.
La casa permette a ciascuno di sparire nel proprio mondo. È come se la cellula di Le Corbusier fosse stata messa a disposizione di tutti. La struttura è proprio interessante...
 ... è vistosa, quasi esibizionista. Pare molto complessa. Ma in realtà tutto è tenuto in piedi da due portali e una trave, come un ponte. La struttura, come tutta quanta la casa, esprime in forma complessa idee molto semplici. Se paragono questa casa a ponte alla casa di vetro sulla collina di Mies o alla versione a ponte di Casa Eames...
Sì, ma il programma di quelle abitazioni era molto più semplice, proprio minimo. Qui siamo in un mondo completamente differente. In realtà ci troviamo in una pluralità di mondi che si intersecano.
Invece di una trasparenza tralicciata, come per Mies e per Eames, la trave a ponte qui è una scatola perforata di cemento, rigida ed ermetica: la casa dei sogni che posa su un portale ed è appesa all’altro.
La struttura entra ed esce dalla casa. Talvolta è dentro, talvolta è fuori. È come se volesse estendersi oltre lo spazio...
In ciascuna delle facciate lunghe solo uno dei portali sporge, mentre l’altro tende a sparire, ritraendosi all’interno. Ciò dà alla casa un’aria di impossibilità, di instabilità misteriosa.
È l’arte del prestigiatore. Attira l’attenzione con una mano e con l’altra, quella che non si vede, fa il trucco.
Dal patio d’ingresso la casa pare appesa a un filo. È così lacerante la presenza di questo cavo teso, staccato com’è di oltre due metri dalla facciata.
È come se la casa dovesse crollare se qualcuno lo tagliasse.
Oppure librarsi come un pallone. Non più assicurata al cavo, la scatola di cemento potrebbe semplicemente volar via. 

Il cavo sembra anche più sottile se lo si guarda dal patio della casa di vetro, contro la massiccia scala a colonna ricoperta d’acciaio inossidabile, quasi uno specchio, che completa il portico. Come Stanlio e Ollio. Ricordano le immagini grottesche dei palazzi degli specchi dei luna park. Se ne stavano là, a guardarsi divertite, di volta in volta grasse e deformate o allungate come figure del Greco, quando la donna arrivò per chiedere se volevano vedere l’interno. I ragazzi ora giocavano a carte con un amico, seduti sul pavimento del patio della casa di vetro. Da qui potevano vedere che in basso, a prudente distanza dalla casa, nello stesso luogo dove avevano parcheggiato anche loro, ora c’erano parecchie auto e parecchie persone che guardavano in su, verso la casa, come se fosse un disco volante atterrato da poco. Normale, dissero i ragazzi. Divertimento della domenica pomeriggio. La casa era piena di casse, sparse intorno come se gli inquilini fossero appena arrivati. Erano lì da settembre. Il fatto non sembrava minimamente infastidirli. Anzi, pareva che andasse loro bene così. La casa in deshabillé era bella, come i suoi abitanti, attraenti senza che facessero nulla per esserlo. Pensavano che la casa andasse fotografata così, con tutte le casse, i quadri imballati appoggiati alle pareti, il fango dentro e fuori, i cavi volanti, le pareti non tinteggiate, mobili vecchi e mobili nuovi, pezzi d’antiquariato, tutto senza una posizione precisa: tutto in divenire, a metà strada, a mezzo, in costruzione, semisvestito. La donna mostrava la casa come se fosse un pezzo d’arte contemporanea. Non c’era da stupirsi. Queste case vengono commissionate per essere opere d’arte. Ma c’era qualcosa di particolare riguardo al suo rapporto con l’opera, un po’ come quello di un curatore di una mostra, che parla con esattezza dell’opera, di ogni particolare, di ogni scelta.

Le venivano in mente le parole di Peter Sellers in Oltre il giardino, quando entra per la prima volta in un ascensore: ‘E quanto dobbiamo aspettare in questa stanzetta?’.

Di che colore saranno le pareti interne del patio?
Quella d’ingresso sarà color sabbia, come il colore della pietra esterna, l’altra sarà grigia, e quella posteriore quasi nera.
“Quasi nera”? La scelta delle parole rivelava una certa complicità tra committente e architetto, una comune sensibilità in grado di arrivare all’ultima sfumatura dell’opera.
L’intimità di una collaborazione paritaria.
L’ingresso è una vera sorpresa. Una porta scorrevole di vetro, nel punto più stretto della pianta, che si apre direttamente sulla stufa...
Ci sono due porte d’ingresso, d’alluminio, alle estremità della facciata: l’ingresso dei ragazzi e l’ingresso di servizio.
...Si ha la sensazione di entrare direttamente nel cuore della casa. Appena si entra, la prima cosa che si vede è il pozzo dell’ascensore con il suo pistone.
Si entra e si è già arrivati. Non c’è spazio intermedio. Non ce n’è bisogno. È la stessa logica della sedia a rotelle. Si va dall’auto all’ascensore su ruote. Una promenade meccanica.
La casa è stata concepita in modo da facilitare la vita quotidiana di mio marito. Il patio è la prima stanza della casa. L’ingresso nella casa è l’ingresso nel patio. La cucina, in costruzione, mostrava le travature di un soffitto non ancora in opera. Un gigantesco vaso alla Aalto conteneva un abbagliante mazzo di gladioli.
Il soffitto della cucina si pensava di farlo in pannelli d’alluminio, come il pavimento del soggiorno e quello dell’ascensore.
Con lo stesso materiale adottato per i soffitti come per i pavimenti, si ottiene continuità in sezione; una sezione libera, come direbbe Moneo.Ma alla fine i pannelli d’alluminio perforato saranno sostituiti con lastre di policarbonato. Non abbiamo più soldi. Alcuni campioni di questo materiale, di dimensioni considerevoli, di varie texture e spessori, sono posati qua e là, dentro e fuori la casa. Se la pianta libera scioglie le pareti dalle loro funzioni strutturali, la sezione libera svincola i pavimenti. I pavimenti galleggiano. L’ascensore non è più uno spazio chiuso, una camera di deprivazione sensoriale, dove – come diceva Johnson – “tutta l’architettura finisce”. (Le venivano in mente le parole di Peter Sellers in Oltre il giardino, quando entra per la prima volta in un ascensore: “E quanto dobbiamo aspettare in questa stanzetta?”). L’ascensore, una piattaforma di tre metri per tre e mezzo (circa i tre metri e mezzo per tre metri e mezzo del Cabanon di Le Corbusier a Cap Martin) è una stanza che contiene quasi tutto ciò che serve al marito, è la sua casa. La stanza si muove su e giù, può fermarsi a ogni piano e a qualunque livello intermedio. Come ha detto Rem “il movimento dell’ascensore cambiava ogni volta l’architettura della casa. Il cuore era una macchina”.

L’ascensore è lo spazio più cinematografico della casa, e anche il più architettonico. Definisce un viaggio in sezione attraverso il cuore della casa. L’ascensore ritorna alle sue entusiasmanti origini. Scriveva Giedion dell’esperienza spaziale di spostarsi lungo la Tour Eiffel: “Il compenetrarsi dei punti di vista continuamente mutevoli per l’osservatore era uno squarcio di esperienza tetradimensionale”.
Le vecchie case d’abitazione spagnole – come quelle in cui lei e Blanca erano cresciute – avevano ancora ascensori vetrati arredati con panche imbottite, lampade decorate e specchi, come piccole sale d’attesa che correvano nel centro degli edifici, soffitti che diventavano pavimenti, oltrepassati dall’osservatore come in un film giallo. E a New York una volta aveva vissuto in cima a un edificio industriale in cui un montacarichi a comando manuale con una gran finestra orizzontale scorreva lungo la facciata. Mentre saliva in ascensore, poteva sbirciare tra un piano e l’altro nei loft dell’edificio di fronte, con i particolari della vita di ognuno messi in vista da differenti angolazioni mentre lei saliva. Un film. Il metodo progettuale di Oma è il montaggio cinematografico. Come nelle case di Le Corbusier o di Mies, più importante dell’oggetto è il modo in cui esso incornicia il paesaggio in cui si trova, il modo in cui crea il paesaggio. Perfino la Casa Kröller-Müller è prima di tutto un paesaggio. L’affermazione più importante di Oma forse è che non ci sono più oggetti. Il paesaggio è tutto. Il ruolo dell’architettura è indicarlo, produrlo. Al piano terreno gli spazi sono come caverne scavate nella collina.

Domus 811, gennaio 1999

E questa scala? Sembra un omaggio a Gaudí.
O a Kiesler.
Sì. Il punto di partenza è amorfo e avvolgente. E mentre si sale diventa una caverna aperta sull’esterno. Le pareti della caverna erano umide. Dopo la forte pioggia l’acqua era entrata da gradini e pareti. Un paio di giorni prima Rem era venuto a controllare la situazione.
Come mai tutti i grandi nomi dell’architettura – Le Corbusier, Mies, Frank Lloyd Wright – hanno delle perdite? Raccontarono alla donna qualche storia d’acqua in architetture moderne. Come quando Madame Savoye chiamò in piena notte Le Corbusier nella sua villa allagata e lui, senza sollevare gli occhi dallo spettacolo, le chiese un foglio di carta e, rifiutando la matita che gli veniva offerta, con grande determinazione fece una barchetta di carta e la posò sull’acqua, mormorando qualcosa su come appariva bella la casa in quelle condizioni. O come quando Frank Lloyd Wright, chiamato da un committente esasperato perché un’infiltrazione gocciolava sulla sua sedia nel bel mezzo di una cena ufficiale, aveva consigliato al cliente di spostare la sedia. Non erano sicure che la donna apprezzasse gli aneddoti. L’acqua tocca sempre sul vivo. Alcuni operai stavano collaudando il movimento dell’ascensore con un grande telecomando, simile a quello delle gru industriali. I ragazzi e l’amico si godevano la novità, seguendo le operazioni del telecomando con la perizia della generazione dei computer. La donna parlava con gli uni e gli altri mentre curava la regia di questo singolare palcoscenico domestico. La grande parete a tripla altezza, accessibile dalla piattaforma dell’ascensore, che avrebbe ospitato libri, opere d’arte e vini non c’era ancora. Salirono le scale e entrarono nella casa di vetro.

Era totalmente trasparente. Per metà aria, per metà vetro. Vuoto e pieno fusi insieme. Interno ed esterno non più contrapposti. La membrana di contenimento e la struttura scompaiono, si dematerializzano. All’esterno della casa di vetro, osservando il soffitto perfettamente liscio, scoprirono una precisa cartografia di linee sottili che correvano parallele, distinte oppure formavano una figura elicoidale intorno alla spirale della scala. Sono binari elettrificati lungo i quali scorreranno i quadri della nostra collezione per spostarsi dall’interno all’esterno.

Pare una cosa molto festiva, portare all’aperto i quadri.
Come appendere la biancheria. Un nuovo sviluppo dell’architettura del sipario, della maschera, che si vede in molti progetti di Oma.
Una massiccia porta vetrata doppia, scorrevole e motorizzata, lunga otto metri e mezzo, si sposta di undici metri lungo il lato nord della casa di vetro. Il telaio è nascosto da pavimento e soffitto, per produrre un senso di trasparenza completa. Era un’eco di Casa Tugendhat, dove una enorme finestra affonda nello scantinato grazie a un motore? Al piano terreno una superficie piana consente alla sedia a rotelle libero accesso all’esterno. È come se la sedia a rotelle cancellasse la linea tra interno ed esterno, oltre a cancellare la distinzione tra macchina e casa. L’ambiguità di interno ed esterno è un gioco continuo. Con la grande finestra aperta e le tele appese fuori, lo spazio esterno diverrà interno e, viceversa, l’interno sarà l’estensione naturale della collina. Per andare da qui alle stanze dei ragazzi bisogna prendere la scala a chiocciola. In mezzo a tutta questa efficiente fluidità, improvvisamente una restrizione all’accesso. La sedia a rotelle non può entrare senza aiuto nel territorio più privato dei ragazzi. La casa dei ragazzi, a quattro lati, è stata divisa in tre, e ciascuna stanza è differente. Il dinamismo della pianta è un vortice che ha origine nella spirale. Questo movimento centrifugo accelerato si contrappone alla stabilità centripeta della casa vicina, in cui vivono i genitori. Il gioco di statico e dinamico si riflette anche del carattere differente delle cornici dei portali. Donna: in tutte le stanze ogni parete è differente: una è grigia, l’altra di legno, e la terza è graffita. La parete grigia si fa più scura a mano a mano che si passa da una stanza all’altra.

Il committente ideale dell’architettura moderna, l’acme di un secolo di ricerca, è un corpo confinato in una sedia a rotelle, meccanizzato nei movimenti, interamente collegato al cyberspazio.

L’armadio consiste semplicemente in una fessura di luce naturale nel soffitto e una sbarra per appendere gli abiti. Il gioco dei colori degli abiti della seconda figlia (porpora, fucsia, verde pistacchio, viola, giallo, arancio) fa di questo nonarmadio un’opera d’arte. Le piccole finestre rotonde, ritagliate nello spessore delle pareti a differenti altezze e angolature per mettere a fuoco vedute parziali, danno alla stanza un’aria di quiete.
Rem voleva che l’abitazione superiore fosse molto chiusa e che, sotto, il soggiorno fosse molto aperto all’ambiente naturale. Ogni finestra è stata pensata secondo l’altezza di chi dorme in quella certa camera e secondo il punto di osservazione: il letto, la scrivania, la doccia... Tengono anche conto dei movimenti all’interno della stanza e di ciò che sta intorno alla casa: Bordeaux, la collina, il patio d’ingresso, un albero...
Continuo a pensare a Ronchamp o alla casa-studio di Mel’nikov...
C’è una costruzione all’aeroporto La Guardia, una torre rotonda fatta di mura concave forate da finestre rotonde...
Questi fori sembrano fatti a posteriori, scavati nella parete di cemento. Ma non è così. Per realizzare le casseforme devono aver fatto in anticipo un calcolo molto preciso del dove e del come di ciascun foro.
Certamente non c’è nulla di casuale nella collocazione di questi fori. Ho visto disegni che tracciavano le linee di vista degli abitanti di altezze diverse (bambini, adulti) sdraiati, seduti e in piedi. Il singolo occhio universale dell’uomo in piedi di Le Corbusier, a un metro e settantacinque centimetri dal suolo, è stato rimpiazzato da una molteplicità di occhi. Occhi di bambini, di invalidi confinati sulla sedia a rotelle... Ci sono tre tipi di fori. Il primo tipo, ad altezza d’occhi, apre viste sull’orizzonte. (La scatola di cemento galleggia come un transatlantico i cui oblò incorniciano l’orizzonte – chi diceva che gli oblò dei transatlantici inquadrano l’orizzonte per prevenire il mal di mare?). Il secondo tipo inquadra vedute del paesaggio circostante, immagini il cui statuto è analogo a quello delle immagini appese alle pareti. E, secondo Oma, il terzo tipo è costituito da “fori contro la claustrofobia che incorniciano il tratto di terreno più prossimo”. Se la fenêtre en longueur separava il piano mediano dal primo piano e dallo sfondo, cancellando il senso di profondità prospettica della portefenêtre, le finestre a gruviera di Floirac separano sfondo, piano mediano e primo piano presentandoli come frammenti isolati, come in un’esplosione. Occhi multipli, identità multiple: ragazzi, donne, invalidi.
Dato che i ragazzi devono ancora crescere, per lo meno due di loro, percepiranno le stanze in continuo mutamento finché smetteranno di crescere. La loro altezza trasformerà ciò che vedono dal-le finestre. La figlia minore sarà come Alice nel Paese delle meraviglie. La finestra sarà ogni giorno più bassa e nel giro di pochi anni sarà costretta a chinarsi per guardare fuori. D’altra parte riuscirà a guardar fuori da altre finestre solo col passare degli anni. A mano a mano che crescerà avrà una visione nuova.
Non ricordo di aver visto nei disegni la grande finestra rotonda che gira su un perno nella stanza del secondo figlio.

Domus 811, gennaio 1999

Come hanno fatto a portare quassù i letti e il resto dei mobili? Dalla scala a chiocciola? Oppure è la ragione di questa finestra?
Che legno è? Profuma di cedro. Donna: È legno industriale, molto comune. A Rem interessa risolvere con materiali di alta qualità le parti essenziali: la struttura, la carpenteria, i serramenti, ma i materiali di rivestimento sono molto consueti.
Materiali semplici, finiture incredibilmente accurate... Non sto parlando di particolari, ma dell’ultimo strato di rivestimento. Non dei giunti ma delle superfici. Non ci sono particolari, questo è il punto. Non ci sono praticamente giunti.
E il pavimento, grigio anch’esso. Sembra realizzato molto bene. Che cos’è, linoleum? Si estende senza giunture sull’intera superficie, perfino nella doccia.
È fatto con una malta di resine lucidate. Niente giunture, niente particolari, niente distrazioni... Tutto quel che si vede è la continuità del suolo. Quando se ne andarono era buio. Gli ospiti erano già partiti. E l’uomo stava lavorando alla scrivania nello spazio destinato allo studio della donna. Di fronte alla collina attraverso la parete di vetro e lo schermo del suo computer, collegato con Internet, telefono, fax... Era una figura emblematica della vita contemporanea. Nello spazio elettronico ogni corpo si muove con la stessa libertà. Guardando da lì nella camera di lui videro per la prima volta gli attrezzi da ginnastica, che facevano probabilmente parte del suo programma di riabilitazione. Non avevano visitato l’appartamento della coppia. Ma da lì sembrava una camera da letto qualunque, zeppa di attrezzi da ginnastica. Venivano in mente gli “appartamentipalestra” degli anni Venti e Trenta. Ma anche gli appartamenti di Manhattan. E improvvisamente si resero conto di che cosa aveva di straordinario quella casa. La condizione del marito era un caso estremo del corpo contemporaneo. Un esercito di chiropratici, fisioterapisti, agopuntori, chirurghi al laser, ortopedici, massaggiatori e un milione di marchingegni – sedie, cuscini, materassi, schienali speciali – erano stati realizzati per la cura della schiena. Come le aveva detto una volta un chiropratico, mentre lei era dolorante: “Il fatto di camminare è un miracolo. Non siamo stati progettati per questo”. Il committente ideale dell’architettura moderna, l’acme di un secolo di ricerca, è un corpo confinato in una sedia a rotelle, meccanizzato nei movimenti, interamente collegato al cyberspazio. La sezione libera si estende senza li-mite in Internet.

“Questa casa”, disse l’uomo quando si congedarono, “è stata la mia liberazione”.

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