Quando Charlotte Perriand ha raccontato a Domus una vita di design

I primi successi, la collaborazione con Le Corbusier, il Giappone, la semplicità e l’innovazione: la designer nata 120 anni fa, autrice di molte pietre miliari nella storia dell’arredo, ci regalava nel 1988 un lucido manifesto per l’elaborazione dell’habitat umano.

Un lavoro empirico, guidato dall’ispirazione, che studia la natura e le tecniche artigianali – “invece di esaminare le macchine come avveniva al Bauhaus” – dal quale sono nati pezzi leggendari come la chaise longue basculante e la poltrona Grand Comfort, le librerie Nuages come gli arredi per l’Unité d’Habitation a Marsiglia e gli interni per le stazioni sciistiche sulle Alpi: Charlotte Perriand, figura centrale per il design moderno, ha costruito fino dai primi passi una carriera che è un manifesto di principi e di azione per il design. Il suo è il nome che ormai non è più “dietro” ma “sugli” arredi associati alle architetture di Le Corbusier, e – a differenza di Eileen Gray, figura troppo a lungo lasciata nella penombra della storia – ha sempre costituito un riferimento per il design dell’arredo, anche a costo di battaglie contemporanee e postume in un panorama dominato da figure maschili. Nel settembre del 1988, sul numero 657, Perriand raccontava a Domus l’origine della sua visione e dei suoi disegni più famosi.

Domus 697, settembre 1988

Charlotte Perriand: Mobili come metafora di un’epoca

Charlotte Perriand: Ho frequentato una scuola d’Arte collegata con il Musée des Arts Décoratifs. Il direttore, Henri Rapin, era molto tradizionale ma allo stesso tempo aveva il merito di essere attivo come libero professionista al di fuori della scuola. In altre parole non sono stata educata in modo astratto, al contrario. Ogni ricerca doveva concludersi con una realizzazione; e partecipavamo a concorsi organizzati con le industrie proprio per avere un contatto con il mondo del lavoro. Eravamo davvero nel “mestiere”. E questo mi è servito. Inoltre, attraverso il disegno c’era tutta un’attività di studio della natura, collegata se si vuole alla tradizione ‘900. Invece di esaminare le macchine come avveniva al Bauhaus, si cercavano risposte attraverso l’osservazione delle piante e degli animali. Molto importante era anche il fatto di avere una borsa di studio e quindi l’obbligo di lavorare per non essere messa alla porta; non ho più avuto nemmeno il tempo per suonare il pianoforte. Poi oltre alle lezioni a scuola, seguivo i corsi alla Grande Chaumière, lavoravo nell’atelier di André Lhóte, facevo molti disegni di animali negli zoo di Parigi. E il sabato seguivo i corsi di Maurice Dufrène, che era di nuovo impegnato nel mondo della produzione come direttore artistico delle Galeries Lafayette e lui mi offriva l’opportunità di veder realizzate le idee, in un immediato rapporto con il concreto. Nel 1925, all’Exposition Internationale des arts décoratifs, la scuola mi ha chiesto un affresco per la sala di musica, con le Nove Muse come tema. Era molto pompier, beninteso, ma diciamo che i miei disegni alla Grande Chaumière mi sono serviti. Ho anche fatto una grata in ferro battuto e le Galeries Lafayette hanno prodotto un tessuto che Dufrène utilizzò per un suo allestimento. A quel punto, ero alla fine dei miei studi, e non sapevo bene cosa fare. Ma Rapin e Dufrène mi hanno incitato a continuare e così ho partecipato ad altre esposizioni, con realizzazioni in stile décorateur che non erano molto innovative ma che comunque riuscii a vendere. Scrissero a quei tempi, riferendosi a una delle mie mostre, che erano lavori alla Ruhlmann, una specie di classicismo naturalmente ben fabbricato, e questo grazie a Dufrène che mi aveva messo in contatto con i suoi artigiani.

Domus 697, settembre 1988

Enrico Morteo: E poi cosa è successo? Come è avvenuto il cambiamento?
Tutto ciò come ho detto era pompier; ma poi c’era la vita accanto a questo, il macchinismo era visibile e nelle strade circolavano le automobili, così quando ho deciso di fare il mio proprio atelier ho scelto di esprimere la mia epoca, come i giovani hanno sempre fatto e continueranno a fare, senza costrizioni né di studio, né di stile, né di niente. Mi esprimevo con l’epoca quale essa era, con quello che portava, e in questo modo mi sono imbattuta nel rame e nel tubo cromato e ho esposto al Salon d’Automne del 1927 il Bar sous le toit, tutto in acciaio cromato e alluminio anodizzato. Solo nel ‘28 al Salon des Artistes Décorateurs ho presentato la Salle à manger, perché non volevo sparare tutte le cartucce in un colpo solo. Ho avuto un grande successo perché anzitutto era gaio; e alla fine ho offerto champagne agli amici. Era un modo di uscire dalla polvere e dalla solennità dell’insieme. Ma dopo questo successo folgorante mi sono detta: “Questa è la gloria, ma a cosa mi serve? Proprio a niente. Se è questo, bene, ma adesso cosa faccio?” Ho pensato di fare altre prove, e siccome amavo la natura ero tentata di entrare in una scuola di botanica. Ma Jean Fouquet, a quel tempo gioielliere molto noto e moderno, mi ha detto: “Prima di decidere leggi questi due libri”, e mi ha regalato i libri di Le Corbusier Vers une Architecture e L’art Décoratif d’Aujourd’hui. Li ho letti e mi si è aperto un muro, perché avevo veramente un muro davanti. Allora ho capito di voler lavorare con Le Corbusier. Mi sono presentata al suo atelier, al fondo di un convento, che a quel tempo non era neppure molto organizzato. Ho mostrato diligentemente quel che avevo preparato per il Salon des Artistes Décorateurs, cioè la sala da pranzo, e lui mi ha detto: “Oh, da me non si ricamano cuscini”. Gli ho risposto che non importava e ho lasciato il mio indirizzo, se per caso avesse cambiato idea. Ma Le Corbusier, che aveva fatto nel ‘25 il padiglione dell’Esprit Nouveau con i mobili di Thonet, voleva disegnare mobili in accordo con l’architettura. Comunque, insieme a Pierre Jeanneret, spinti dal tam tam della stampa che parlava molto bene del mio lavoro, decisero di venire a vedere quello che avevo fatto. Fu Fouquet ad anticiparmi l’intenzione di Le Corbusier di prendermi nell’atelier. È stato magnifico. Infatti ho ricevuto un biglietto e ho cominciato ad ottobre direttamente come collaboratrice, non come apprendista tutto fare, e venni messa a lavorare sul programma dei contenitori, dei tavoli e delle sedie, cioè l’arredamento delle abitazioni. L’insieme fu presentato al Salon d’Automne del 1923.

Domus 697, settembre 1988

Parallelamente al lavoro nell’atelier Le Corbusier, Lei era membro attivo del “UAM” (Union des Artistes Modernes).
Fu al Salone del 1928 che mi venne l’idea di formare un piccolo gruppo di giovani che esprimesse con il proprio lavoro lo spirito nuovo del macchinismo. Con René Herbst che faceva le sue sedie metalliche, c’erano Djo Bourgeois, Salomon progettista della luce, Fouquet come gioielliere, Jean Puiforcat, ed avemmo molto successo. Così abbiamo chiesto ad altri di aderire al nostro nucleo - ricordo Francis Jourdan, Pierre Chareau - per esporre tutti insieme al grande Salon des Artistes Décorateurs. Ma ci rifiutarono lo spazio dicendo che non si poteva fare un salone dentro al Salon e noi ci siamo ritirati in blocco fondando l’Union des Artistes Modernes. Il nostro scopo era affermare l’unità di tutte le “pluridiscipline” legate all’habitat ed all’uomo: l’urbanistica, l’architettura, i giardini, le attrezzature domestiche, i mobili, i gioielli, l’oreficeria, i tavoli, i tessuti, tutto; a una condizione, quella di avere la volontà di esprimere la nostra epoca con i nuovi materiali di cui disponevamo e secondo una certa etica del nostro tempo, che era un’etica di funzionalità tecnologica, meccanica. Da qui i gioielli di Fouquet che erano piccole macchine, ed un certo purismo che ci faceva selezionare delle cose che ci parevano buone, come i bicchieri da degustazione di Nicolas (una famosa catena di enoteche N.d.T.). Era una multidisciplina ma in una tendenza antidecorativa. Non lavoravamo insieme. Ma ciò che era bello, che non esiste più oggi, era il collegamento di tutte le discipline con l’idea che, con il nostro lavoro, potevamo portare avanti le nostre idee in tutti i campi.

Lei o altri artisti del gruppo avete avuto occasione di lavorare per l’industria?
C’era Herbst che lavorava per l’ufficio tecnico dell’Otua (Office Technique pour l’Utilisation de l’Acier); noi collaboravamo con Thonet. Bisogna ricordare che l’epoca non era favorevole alla produzione di questi mobili. Erano considerati come arredi per ospedali, per i bistrots, dunque molto limitati e non interessavano l’industria. E dobbiamo anche ricordare che l’Otua non vendeva al pubblico mentre l’arredamento era nelle mani dei negozi che erano interessati ai mobili d’epoca, alle tappezzerie, ma non certo alla nostra ricerca che avrebbe potuto condurre all’industrializzazione. Ma se fossimo veramente arrivati all’industrializzazione, probabilmente avremmo prodotto altri modelli, perché ci sarebbero stati problemi economici e allo stesso tempo dei procedimenti tecnici particolari. Noi abbiamo fatto fare i nostri mobili da artigiani e non da fabbriche; un’officina avrebbe avuto metodi diversi e dunque il risultato sarebbe stato diverso.

Domus 697, settembre 1988

Non erano molte le donne che lavoravano come Lei in quegli anni, forse solo Eileen Gray. Il fatto di essere una ragazza, non Le ha mai causato problemi?
No, anzi i miei genitori, per quanto potevano, mi hanno sempre aiutata e mi hanno dato la mia libertà. Anche se avevo solo diciotto anni e a quell’epoca proprio non era usuale. Sul lavoro non ho mai avuto ostacoli, tanto più che ero appassionata a ciò che facevo. Il solo momento difficile che posso aver avuto è stato quando Corba mi ha detto che non voleva cuscini, ma è durato un istante. Poi sono entrata nell’atelier, dove eravamo tutti uguali a condizione di lavorare bene. Ciò che contava era la nostra passione, la passione per la nostra epoca e la passione per ciò che facevamo. Credo che le cose si facciano solo con una certa passione, altrimenti non si fanno. Come si svolgeva il lavoro nell’atelier? Voi eravate in tre a progettare i mobili.
Quando sono entrata da Le Corbusier, lui aveva già fatto diversi schizzi dei differenti modi di sedersi, con poltrone grand-relax, poltrone da lavoro, poltrone da ricevimento... Su questa base mi sono messa a lavorare. Fu a quel punto che si scelse il tubo metallico perché era un’ossatura di sostegno semplice, eliminando ogni nozione tradizionale di tappezzeria, ripulendo tutto e usando della tela tesa. Ma se non sbaglio, le sedie e le poltrone a Villa Church e Villa La Roche avevano dei cuscini imbottiti.
Sì, i mobili erano stati studiati con la struttura leggera, ma bisogna dire che Church e La Roche erano persone che desideravano un confort non solo reale ma anche visivo. Ci tenevano al lusso e allora abbiamo aggiunto un piccolo telaio con i cuscini.

Domus 697, settembre 1988

Un oggetto eccezionale per un luogo particolare.
Per un luogo preciso, una destinazione precisa. L’oggetto non è neutrale, c’è un rapporto anche con l’uomo e bisogna tenerne conto. In molti mi hanno chiesto se avrei disegnato gli stessi modelli qualora non fossi stata nello studio con Le Corbusier. Certamente non li avrei fatti perché sono il risultato del lavoro molto serio di tre persone; e Le Corbusier e Pierre Jeanneret contribuivano molto con la loro architettura. C’era una specie di osmosi con l’architettura. Il divorzio in Francia fra architettura e arredamento è un errore fondamentale. Credo che un architetto debba essere formato in modo da poter disegnare i mobili insieme con le architetture. Se vuole, può non fare architettura ma deve conoscerla. Il décorateur si limita al pastiche, ad aggiungere cose che non sono in relazione con il progetto. Devo ricordare che Le Corbusier non era formalista. I primi mesi che ero da lui mi ha messo a lavorare all’équipement di Villa La Roche prima e di Villa Church poi. Io volevo fare più o meno le stesse cose, ma erano due progetti diversi. E mi dicevo: “Ma non sa cosa vuole, cambia sempre”. Non avevo ancora afferrato le sue ragioni profonde perché erano in rapporto con le sue architetture. E l’architettura è legata a tante cose: a chi la costruisce, all’ambiente e ai suoi vincoli, ai suoi abitanti. Il suo era un approccio logico per nulla formalista. Ma in più in Le Corbusier c’era un senso plastico della forma; perché altrimenti ci si può fermare anche a cose molto pulite, molto ragionevoli, molto molto perfette. In altre parole la sua pittura contava enormemente e si rifletteva nell’architettura. Quando sono entrata da lui Dufrène mi disse: “Lei si inaridirà”. Non lo si capiva già allora, lo si voleva rinchiudere in formule, ma non è vero, c’era la sua poesia. E questo è difficile da capire. Ma questa plasticità non gli impediva di avere i suoi modi di procedere. Avevamo delle matite colorate quando lavoravamo: si cominciava a fare un cerchio poi si disponevano le cose, le mettevamo a posto, le modellavamo. Poi si guardava fuori dalla finestra. Tutto era un gioco, un gioco sottile. Si è detto che non era raffinato, ma era molto raffinato. La differenza fra i nostri mobili e quelli del Bauhaus era la nostra raffinatezza. Aggiungo un’altra cosa. Si è sempre pensato a Le Corbusier in rapporto alle regole compositive della sezione aurea. Ma solo dopo la guerra lui ha stabilito la sua proporzione numerica. Noi facevamo le cose secondo il nostro sentimento, solo dopo facevamo delle verifiche di proporzioni.

Domus 697, settembre 1988

Di Le Corbusier è noto il metodo progettuale. Qual è il Suo?
Ma credo sia quello che hanno tutte le persone che studiano coscienziosamente un problema: è lo stesso di Le Corbusier, Aalto, Breuer. Se mi affidano un progetto, lo analizzo come oggetto e penso a tutti i gesti che lo riguardano. Poi tengo conto dei luoghi, delle possibili collocazioni e dei materiali, che dipendono dal clima e talvolta dai desideri delle persone. E questo percorso, che è tutto padroneggiabile, conduce a delle forme. Come mai, dopo aver usato i materiali più moderni e aver scritto un saggio intitolato “Wood or Metal?” sostenendo tutti i vantaggi del metallo, tornò anni dopo a progettare con il legno?
I primi lavori che avevo fatto erano in legno, ma solo impiallacciato, delle ebanisterie. Mentre il legno è anche ossatura - in tutti i mobili che ho realizzato in seguito il legno era usato in modo strutturale. Traslocando da piazza Saint-Sulpice, per andare a Montparnasse scoprii un venditore di sedie impagliate. Le faceva fare nelle prigioni, riducendo così moltissimo il costo della manodopera. Allora ho fatto un disegno per una sedia che è stata fabbricata dai carcerati. Costava pochissimo ed era comoda. Sono state una sfida. Credo che si possa lavorare con tutti i materiali se usati correttamente. Si può impiegare il legno massiccio, il legno curvato, o il bambù come ho fatto in Giappone, ma occorre conoscerne la tecnica.

Nel 1940 ricevette un invito a recarsi in Giappone dove si fermò alcuni anni. Vuole raccontarci qualcosa del suo incarico e il valore che ebbe per Lei questa esperienza?
Fu J. Sakakura che avevo conosciuto nell’atelier di Le Corbusier ad invitarmi in Giappone con l’incarico di collaborare alla definizione di orientamenti per la produzione industriale. Si trattava di un lavoro molto serio, in cui ero stata preceduta nel 1933 da Bruno Taut. La missione, organizzata impeccabilmente dal Ministero del Commercio e dell’Industria, aveva un programma preciso: per tre settimane visitavo una provincia, incontrando artigiani, studenti, nelle scuole e nelle prefetture, poi trascorrevo otto giorni a Tokyo, dove risiedevo all’Imperiai Hotel di Frank Lloyd Wright. Al contrario di oggi, quello che ho avuto la fortuna di conoscere era un Giappone molto tradizionale, prima del cambiamento. Ho molto amato le case giapponesi, di grande modernità e semplicità. Tutte le dimensioni, compresa l’altezza delle finestre, sono modulate sulle misure base del talami, che si tratti del Palazzo Imperiale o della casa contadina il modulo è lo stesso. Non c’è bisogno di architetti per costruire. Le strutture sono molto leggere, controventate con dei semplici bambù; tutte le chiusure interne scorrono su coulisse già inserite nella struttura e sono ottenute con pannelli di carta; si usa prima carta di giornale come riempimento e poi dei fogli di finitura. Tutto è così leggero che anche un bambino può spostare le pareti; da noi pesano tonnellate. Allora comprare i tatami o le finestre era facile come andare dal panettiere. Là l’industrializzazione c’era già. Ora io dico: oggi abbiamo dei materiali leggeri che ci ricadono indirettamente dalla NASA, molto sottili che isolano dal freddo, dal caldo, dal rumore; sono sicura che se orientassimo le nostre ricerche... Anche le facciate delle loro case erano modulate, scorrevoli, completamente amovibili. Questo fa parte della loro filosofia, quella della simmetria e dell’effimero. È la religione del vuoto, dello spazio Zen che può contenere tutto. In seguito si sono occidentalizzati. L’arte tradizionale dell’abitare, illustrata dalle loro splendide case contadine come dai loro palazzi era estremamente normalizzata. Pur conservando una grande elasticità d’uso. Questo spirito è andato perduto. Bisogna dire che i migliori architetti di questo paese non hanno ancora avuto occasione di dedicarsi a questo nuovo problema dell’habitat dei tempi moderni. Le case individuali tradizionali sono sostituite da un prodotto di fabbrica, da case robotizzate. L’uomo non è più interessato direttamente all’elaborazione del proprio habitat. Ha perso quel legame spontaneo, moduli ben definiti e prodotti artigianalmente in tutto il paese, che gli permetteva di concepire il suo alloggio. È un bagaglio culturale prezioso che, non analizzato, sta scomparendo. E che nessuna norma imposta dall’esterno è riuscita a ripristinare.