Professione, comprensione e intuizione, prima ancora che ispirazione; elaborazione prima ancora che concezione – “Io non disegno, elaboro” – proporzione prima di ogni altro principio del progetto, specialmente di interni. Rodolfo Dordoni negli anni della sua carriera ha saputo costruire pezzo per pezzo le estetiche di intere epoche, tanto con intere gamme di arredi nati da espliciti mandati di produzione quanto con oggetti distintisi come icone che a lui piaceva ricordare, come la lampada Lumière per Foscarini e la poltrona Suitcase per Minotti. Che sia stato lo stesso produttore lombardo a dare la notizia della morte di Dordoni è ultimo eloquente segno di una vita dedicata al design e passata intrinsecamente da art director, per alcuni dei più importanti brand italiani come Artemide, Cappellini, FontanaArte, Foscarini, Roda e appunto Minotti, senza voler contare le altre innumerevoli collaborazioni. Nel 2019 Domus aveva fatto visita a Dordoni nel grande open space del suo studio milanese, ed era stata l’occasione per raccogliere da lui un vero manifesto di professione e visione dello spazio e della vita, che era poi stato pubblicato nell’ottobre di quell’anno, sul numero 1039. A seguire l’intervista di Cecilia Fabiani pubblicata su quel numero.
Un incontro con Rodolfo Dordoni (1954-2023)
Addio a un grande maestro del design e amico di Domus: per celebrare Rodolfo Dordoni, scomparso il primo agosto, riproponiamo l’intervista pubblicata dalla rivista in occasione della visita al suo studio.
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- La redazione di Domus, Cecilia Fabiani
- 02 agosto 2023
Il design come contesto
Come intendi lo spazio dedicato al lavoro? Come vivi il tuo studio?
La concezione che ho dello studio è dichiarata dallo spazio stesso: un grande open space. L’ambiente aperto aiuta a creare un senso di serenità e di uguaglianza. Desidero che i ragazzi dello studio sentano di vivere in un luogo che non è solo di lavoro bensì di contatti, di rapporti. Chiaramente vi sono pro e contro: si condivide tutto, bisogna superare le prime resistenze. Entro la fine dell’anno vorremmo crescere sia come dimensione dello spazio sia come numero di persone – ora siamo una ventina – in modo da lavorare con più agio. Dopo anni scanditi dalla stessa modalità lavorativa, ho deciso di creare un ambiente versatile e di trasferirvi le mie passioni, come l’arte e la cucina. Il ramo dello studio dedicato all’architettura, seguito dal mio socio Luca Zaniboni, avrà un approccio più squisitamente tecnico, mentre io mi dedicherò con più duttilità al design. Il tempo vissuto in studio non sarà unicamente di lavoro sul progetto, ma potrà includere altro come l’organizzazione di una mostra.
Sono per carattere pragmatico. Il mio principale obiettivo è che il prodotto funzioni già da domani, non da dopodomani, e che duri nel tempo.
E la casa? Quale ambiente prediligi? Quali sono le caratteristiche più importanti?
Il tempo che passo in casa è limitato, si riduce essenzialmente al mattino e alla sera. Il mio luogo preferito è la cucina. Mi piace cucinare e avere amici a cena, ma non per serate di rappresentanza o pubbliche relazioni. La cucina è pura convivialità, da condividere con cari amici. Anche il bagno ha la sua importanza, perché ha una dimensione intima, che non va esibita. Ho un bagno semplice ma confortevole, di dimensioni tali da non essere limitato solo alla funzione. Sono due gli elementi che non dovrebbero mancare in una casa: la luce e la vista. Quest’ultima aggiunge fascino e, se presente, va valorizzata nel progetto d’interni.
Progettare interni per privati, o al contrario luoghi pubblici, quali difficoltà implica?
Se si possiede il senso dello spazio e delle proporzioni non vi sono particolari difficoltà in nessuno dei casi. Sono tuttavia compiti molto diversi tra loro. Progettare un luogo pubblico è come fare un prodotto di design. Il designer lavora con aziende che producono serialmente, disegna secondo un proprio gusto, senza essere autoreferenziale, e cerca di essere comprensibile per il maggior numero di persone. Lo stesso vale per il progetto in un luogo pubblico. Nel lavoro per un privato vi è invece un confronto di opinioni; se poi si tratta di una coppia, ci possono essere divergenze di idee anche all’interno della stessa coppia. Lavorare per il pubblico richiede di avere una strategia, lavorare per il privato è più complesso, serve un’opera di convincimento, a volte quasi un’assistenza psicologica.
Cosa ti interessa maggiormente quando progetti un interno? Su cosa punti?
Nel disegnare uno spazio, ciò che distingue il lavoro di un progettista da un altro è il suo senso della proporzione, l’abbinamento dei materiali, l’uso dei colori, la scelta delle dimensioni. È importante che chi progetta mantenga una propria coerenza.
Schizzai su un foglietto di carta una lampada con treppiede in alluminio e cappello in vetro. Quel disegno, che rappresentava la strategia dell’azienda, è stato preso e trasformato pari pari in una lampada che oggi, a 30 anni di distanza, è ancora un bestseller.
Come sono cambiati gli interni negli ultimi dieci/venti anni?
La mutazione maggiore riguarda la modalità secondo la quale la gente comune arreda le proprie case. Il pubblico si è evoluto grazie ai mezzi di comunicazione, alle strategie di comunicazione delle aziende e alle possibilità date dal low price. Un tempo, le aziende lavoravano su singoli arredi ed erano riconoscibili per la tipologia di prodotto. Oggi costruiscono la loro identità sul gusto di un’intera collezione che raccontano attraverso foto, allestimenti, siti, aiutando il consumatore a leggere una proposta nel suo insieme. Un’educazione agli interni che ha fatto sì che oggi nelle case comuni sia più facile riconoscere un ‘ragionamento’ alla base delle scelte d’arredo, anziché singoli pezzi slegati tra loro.
Disegnare mobili e lampade, elementi d’arredo in genere, implica avere una propria visione dell’abitare. Qual è la tua estetica, la tua filosofia progettuale?
Un oggetto ha per me un significato nel momento in cui è ragionato all’interno di un contesto. Ho sempre cercato di fare prodotti che facessero parte di una collezione, di un catalogo, pensati per un certo ambiente. Cerco di immaginare dove questi oggetti saranno utilizzati per rafforzarli e supportarli con altri. Non li ho mai intesi in funzione di se stessi. Sono per carattere pragmatico. Il mio principale obiettivo è che il prodotto funzioni già da domani, non da dopodomani, e che duri nel tempo.
Cosa funge da ispirazione per i tuoi progetti?
Il design è una professione, anche se fatta con passione. Ispirazione è un concetto forse più adatto all’ambito artistico. Lavoro con poche aziende con continuità, perché solo così riesco a mettere a fuoco con precisione il progetto, che prende le mosse dall’azienda stessa, dal suo carattere, dall’articolazione dei prodotti. Disegno divani per più aziende. Devono essere diversi, coerenti rispetto a un determinato catalogo. Non ho progetti nel cassetto, tutti i prodotti sono pensati sempre ad hoc. Quando mi approccia un nuovo produttore dichiaro subito che non mi interessa lavorare a spot: non voglio rischiare di fare un prodotto sbagliato e non avere neppure la possibilità di aggiustare il tiro. Lavorare con continuità e costanza consente di applicare un metodo, facilitando così il lavoro di tutti. Aspetti che magari inizialmente vengono letti come maniacali assumono poi la valenza di codici. Che siano proprio le manie a fare la differenza tra un progettista e un altro?
Ci sono prodotti che ti rappresentano più di altri, anche a distanza di anni dalla creazione? A quali ti senti maggiormente legato?
Quelli nati più da intuizioni che da ragionamenti, come la lampada Lumiere di Foscarini e la poltrona Suitcase di Minotti. Collaboravo con Foscarini da qualche anno, e avevo iniziato a seguire un po’ anche la direzione artistica. In una riunione spiegai che l’azienda portava un nome muranese, ma non ne aveva tutte le caratteristiche, come non aveva quelle di un’azienda tecnologica. Ciò che sembrava un difetto poteva essere un vantaggio, ci rendeva versatili. Potevamo usare l’artigianalità muranese insieme alla tecnologia. Schizzai su un foglietto di carta una lampada con treppiede in alluminio e cappello in vetro. Quel disegno, che rappresentava la strategia dell’azienda, è stato preso e trasformato pari pari in una lampada che oggi, a 30 anni di distanza, è ancora un bestseller. La poltrona Suitcase, in pelle stampata coccodrillo o Pony Look, è nata quasi per provocazione. I Minotti mi avevano contattato affinché disegnassi per loro e avevo bisogno di testare la loro disponibilità a seguirmi in un ragionamento di progetto articolato, legato anche alla moda, in un contesto di collezioni e non di singoli prodotti. Era un modo per far loro capire che sarei stato ‘stravagante’ – per modo di dire, perché non mi considero tale – e intransigente. Loro si sono resi disponibili a capire. Da quel momento è nata una lunga e fruttuosa collaborazione.
Nel tempo è cambiato il tuo modo di disegnare prodotti?
Non è cambiato il mio modo di disegnare. I molti prodotti realizzati nel tempo sono diventati riferimenti su cui continuo a lavorare. È come operare su dei modelli. Il prodotto è un’evoluzione. Più che disegnare, elaboro, lavoro sul prototipo, lo rimodello. Il mio lavoro è oggi meno concettuale: pochi disegni e tanta manualità.
Quale progetto d’interni o di prodotto, che non hai ancora affrontato, ti piacerebbe realizzare e perché?
Vorrei disegnare un piccolo albergo, con un numero limitato di stanze, ognuna diversa e ragionata per personaggi e stili di vita. Vorrei non avere lo snobismo di dire “l’albergo va fatto così”, bensì: l’hotel? Sono tanti piccoli hotel.